Il tuono, e poi il silenzio. La città alle spalle, l’erba e le foglie bagnate dalla rugiada di una primavera che ancora deve germogliare. With the lights out it’s less dangerous. Con le luci spente è meno pericoloso. Magari l’ha pure pensato, in quel momento. Che il buio, quando ci sprofondi davvero, fa meno paura di tutto quel casino che c’è fuori.

Il buio pare immobile, ma ti raggiunge ovunque. Anche alla fine di un vialetto immerso nel verde, al 171 di Lake Washington Boulevard East, Denny Blaine Park, tra le zone più in e benestanti di Seattle. Il buio può avvolgerti anche un lunedì di fine maggio, un oceano e un continente più in là, su una terrazza affacciata sul golfo del Cilento.

Trent’anni fa, il 5 aprile 1994, Kurt Cobain, icona di un’intera generazione, si toglieva la vita in un angolo del garage della sontuosa villa in stile Queen Anne dov’era fuggito da qualche giorno. Nemmeno due mesi dopo un uomo completamente diverso, anche lui idolo di un popolo, imboccava la stessa strada. Il 30 maggio Agostino Di Bartolomei, il leggendario capitano della Roma tricolore del 1982-83, si uccide sparandosi un colpo diritto al cuore. A dieci anni esatti dai drammatici rigori in finale col Liverpool.

Kurt e Diba, un mondo intero a separarli. Geograficamente e umanamente parlando. Da una parte il ragazzo problematico che, all’apice del successo, si lascia travolgere da uno tsunami di droga e alcool, fama e barbiturici. Dall’altra il condottiero silenzioso, leader tecnico e spirituale della versione giallorossa più bella di sempre, ritiratosi dal mondo del pallone quattro anni prima.

Come as you are” – Il cartello di benvenuto ad Aberdeen, città natale di Kurt Cobain

A Cobain uno come Ago sarebbe piaciuto. Working class Hero come lo dipingono quei versi, di John Lennon, che l’anima dei Nirvana ha reinterpretato in uno degli unplugged più riusciti di sempre. Al netto delle droghe e del disturbo bipolare del primo, c’è un filo che li unisce. Il buio strappa le storie, ma accomuna i destini. Soprattutto di chi, anche in mezzo alla folla osannante, continua a sentirsi solo.

Quando decide di farla finita, con un fucile da caccia puntato alla testa, Kurt Cobain è il front man della band più chiacchierata dell’intero panorama musicale. Voce di un mondo, giovanile ma non solo, di “invisibili” e incompresi. Che non ci sta a veder ridurre il movimento grunge ad una semplice questione di chitarre spaccate, camicie di flanella e jeans strappati. I Nirvana sono un fenomeno intercontinentale e quando il suo volto più carismatico abbandona per sempre la scena, un pezzo degli USA si ferma. L’altra parte degli States, che prosegue senza voltarsi, è quella che arriva fin sui televisori della nostra penisola. Un’America colorata e curiosa, in attesa di ospitare un Mondiale di calcio ricolmo di stelle.

Il lunedì in cui Agostino Di Bartolomei punta la sua Smith & Wesson 38 Special verso il petto la grande stampa sportiva italiana è praticamente in pausa. La Serie A è finita da un mese, il Milan di Capello ha conquistato il suo terzo scudetto consecutivo e, due settimane dopo, gli stessi rossoneri hanno schiantato per quattro reti a zero il Barcellona di Cruijff e Romario nella finale di Coppa dei Campioni. L’attenzione è tutta alle beghe del primo governo Berlusconi quando, alle 10.52, arriva il lancio dell’Ansa. “L’ex calciatore della Roma e del Milan si è ucciso stamani sparandosi un colpo di pistola sul terrazzo della sua villa di San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, dove si era trasferito dopo aver concluso la sua attività̀ sportiva”.

Uomini agli antipodi, dicevamo. Lasciati soli con le paure e le inadeguatezze che ognuno, prima o poi, sperimenta. E quando ti ci trovi in mezzo non c’è successo, conto in banca o titolo di giornale a cui aggrapparsi. La solitudine degli dei, sperimentata anche da tanti campioni del ventunesimo secolo. Simone Biles e Ricky Rubio, solo per citare alcuni dei casi più recenti. Campioni che hanno saputo fermarsi, cercando la forza per ripartire.

Scalare la marcia e ripartire non capita a tutti. Quindici anni prima di Kurt e Ago un altro ragazzo, timido e un po’ strano, si ferma nel buio. È l’8 aprile 1979, domenica delle Palme, a Charlottesville, West Virginia. Breece D’J Pancake beve, entra nella casa dei vicini, poi scappa e, tornando verso la propria stanza, decide di spararsi un colpo di pistola. Ha fatto in tempo a scrivere solo 12 racconti brevi, quanto basta per rientrare nel novero dei più influenti autori del Novecento americano. Chissà se Cobain l’ha mai letto, Trilobiti. Di Bartolomei la vedo dura, visto che la raccolta è stata pubblicata per la prima volta in italiano solo col nuovo millennio.

La copertina italiana di Trilobiti

Quel momento di silenzio assoluto, subito dopo il tuono, immagino accada sempre. È l’attimo in cui le domande si fondono ai presentimenti. Non capiamo. E quando si è in tanti a non capire, a non trovare spiegazioni, si finisce per banalizzare, insinuare. Oppure peggio, stigmatizzare.

Allora salta fuori la droga, ed è sempre tanta. L’alcol e le risse nei bar fuori dall’Università in cui lavori. Vengono a galla i debiti. Un’agenzia di assicurazioni che non ingrana e si mangia tutti i risparmi. Mettici pure l’incapacità di vivere fuori dal pallone. Che magari è tutto vero, ma sono retro pensieri che servono solo a tranquillizzare noi che rimaniamo. A sollevare le coscienze di chi, a quell’idolo, aveva creduto e non può sopportare, ora, di vederlo a terra, nella polvere.

Forse perché ci aspettiamo che quelli baciati da talento e fortuna abbiano sempre qualcosa in più per resistere ai marosi della vita. Che il cuore di Ettore lo diano in dotazione a tutti. Ma non è così. Ora lo sappiamo.

Kurt, Ago, Breece… eroi inconsapevoli di una folla che legge, urla, canta, ma fatica ad ascoltare davvero. Uomini alla ricerca della propria voce, di un luogo e di un volto da riconoscere come proprio. E quando lo specchio va in frantumi, ti senti rotto, spaventato, inutile. When you can’t really function you’re so full of fear. Non ci si può dimettere dall’essere eroi.

Il corpo senza vita di Kurt Cobain è stato ritrovato tre giorni dopo, da un elettricista chiamato per eseguire dei lavori nella villa. Come per Di Bartolomei è bastato un attimo per insinuare i dubbi, scatenare dietrologie e complotti. Per entrambi c’è chi ancora non crede al suicidio. Hanno trovato le lettere, i biglietti, ma non basta. “Mi sento chiuso in un buco…” c’era scritto in quello del Diba.

Quasi ogni canzone dei Nirvana è un ultimo saluto e, allo stesso tempo, un disperato tentativo di raccontarsi. Nella lettera di addio, ritrovata in una fioriera, Kurt Cobain augura pace, amore ed empatia all’amico immaginario Boddah. What else should I be, cos’altro potrei essere, si chiedeva in All Apologies. Quel giorno, in fondo al buio, non ha trovato risposte.

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