«Mi fa male nel profondo che fare ciò che amo mi sia stato portato via. Non appena salgo in pedana siamo solo io e la mia testa… e lì ci sono demoni con cui devo confrontarmi».

Una crepa nel cielo di Tokyo. Un’ombra oscura sul racconto quotidiano di un’Olimpiade che, normalmente, vive alla continua ricerca di piccole e grandi storie di sport. Paesi improbabili e nomi fino a ieri semi sconosciuti che assurgono a gloria imperitura. La sublimazione della narrazione sportiva.

In questo caso, però, il nome è di quelli che contano: Simone Biles. Poche ore dopo il ritiro dalla gara di ginnastica a squadre si presenta in conferenza stampa e, come fosse una coltellata di Lucio Fontana, squarcia la tela dei dubbi e delle ipotesi. I muscoli e le ossa non c’entrano. Non in prima battuta, almeno. Il problema è più profondo.

La 24enne di Columbus (Ohio) era una delle atlete più attese, non solo in casa USA. Un noblesse oblige quando vieni dai 4 ori di Rio de Janeiro e sei la prima ginnasta nella storia ad aver vinto cinque titoli mondiali nel concorso individuale. Solo che le medaglie stanno al collo, o in vetrina, e non ti aiutano quando il peso sulle spalle diventa troppo. Specie se gli occhi del mondo li senti tutti addosso, mentre i tuoi tendono verso gli angoli bui della stanza.

Gli abissi dell’inquietudine non sono la prima pagina che vorresti leggere quando parli di Olimpiadi. Eppure a Tokyo hanno probabilmente fatto un’altra vittima. La tennista “padrona di casa” Naomi Ōsaka che, dopo aver acceso il braciere olimpico, si è fatta buttare fuori dalla ceca Vondrousova al terzo turno con un disarmante 6-1, 6-4, condito da 32 errori non forzati della giapponese.

Tante le analogie tra Ōsaka e Biles. Stessa età e medesima attesa spasmodica in patria per una medaglia. Anche la tennista numero 2 del ranking WTA ha confessato di aver sofferto di lunghi episodi depressivi dopo la vittoria agli US Open 2018. Il ritiro dal Roland Garros di qualche settimana fa, poi, aveva riaperto la falla delle speculazioni.

Naomi Ōsaka

Ad osservarle così, queste due vicende, verrebbe da pensare che ci si deve sentire più che mai soli lassù, in cima all’Olimpo. Oppure potremmo navigare a vista tra ipotesi giornalistiche che passano dallo “stress” al “crollo emotivo”, fino al “male oscuro”. Ma non è il momento né il luogo per avventurarsi in diagnosi. Primo perché non ne ho le competenze, secondo perché preferisco abbracciare la questione sotto un altro punto di vista.

Magari più punti di vista. L’esasperante presenza dello show-biz nello sport odierno, ad esempio, o la tensione senza soluzione di continuità che i media spesso alimentano attorno agli atleti e ai grandi eventi sportivi. Concetti che non sono certo una novità. A suo tempo li aveva denunciati André Agassi, quando confessò di aver odiato il tennis più di ogni altra cosa al mondo.

Pure Buffon e “CannonballMark Cavendish avevano abbozzato la questione. Ma chi c’è andato più vicino di tutti, chi ha dipinto l’affresco più veritiero, è uno di quei nomi che non restano nell’immaginario dei tifosi. Specialmente quelli calcistici.

Sedici anni fa Ivan Ergić è un centrocampista del Basilea, campione di Svizzera, gioca in Champions. Il quadro perfetto per un giovane in rampa di lancio, che però scompare per 4 mesi. C’è chi parla di mononucleosi ma poi, ad aprile 2005, davanti alle telecamere del late show sportivo più seguito in Svizzera, è lui a raccontarsi.

A 24 anni (tanto per non parlare di coincidenze), Ergić rilascia a Kurt Aeschbacher un’intervista nella quale descrive il suo malessere interiore, parla del ricovero in una clinica psichiatrica e di come ormai fosse necessario rompere il tabù della depressione nel mondo del calcio, considerata sempre una sorta di macchia nell’idea del calciatore-macho. Ok, nel seguito dell’intervista Ergić critica anche il sistema capitalistico, citando Karl Marx, ma queste sono piccole gemme per soli appassionati, tipo il sottoscritto.

Dal giorno di quell’intervista il mondo è totalmente cambiato e certi meccanismi sono diventati addirittura più devastanti. L’ineasuribile competitività come olio che lubrifica i motori dello show business sportivo, sempre affamato di numeri, risultati e record. Finendo per inghiottire gli atleti in un meccanismo che non fa prigionieri. Come il portiere tedesco Robert Enke, gettatosi sotto un treno nel 2009, a 32 anni. Soffriva di depressione da sei anni, solo la moglie e il medico conoscevano la sua condizione, non ha visto altre vie d’uscita oltre quel binario.

Metteteci, poi, il carico da undici. Quei social e quella slavina di “comunicazione professionale” continua e disturbante il cui compito non è neppure più quello di informare, ma solo di rafforzare posizioni e dividere le fazioni. Avrete un’idea del contesto nel quale atlete come Biles e Ōsaka sono cresciute e sono costrette a confrontarsi a ogni ora del giorno.

Ivan Ergić oggi

Leggete alcuni dei commenti arrivati non solo dal sottobosco liquamoso del web, ma da giornalisti e conduttori affermati e seguiti. Capirete perché, di fronte a certe cose, non ci sono preparatori atletici e mental coach che tengano. La riflessione migliore, anche in questo caso, è sempre Ivan Ergić a darcela. Lo ha fatto in un’altra intervista, qualche anno dopo, lasciato il calcio.

«È una situazione comune in tutti gli sport, ma non se ne sa abbastanza perché i protagonisti di questo mondo, le istituzioni, i club e i funzionari non vogliono sporcare l’immagine di uno sport bellissimo, umano e popolare. Ma non è più così. È diventato un business, più brutale, distaccato e commercializzato che mai. E questo è il motivo per cui vogliono nascondere le patologie che genera, allo stesso modo in cui il capitalismo sociodarwinistico cela i suoi difetti e la sua natura disumanizzante. Lo sport non è nient’altro che il prodotto dell’attuale epoca socio-storica e delle sue dottrine».

Netto, glaciale, profetico. Purtroppo.

@RIPRODUZIONE RISERVATA