Ah, se mi ricordo bene quell’11 gennaio 1999. Ero a tavola con i miei genitori quando un annunciatore del Tg1 diede la notizia della morte di Fabrizio De Andrè. Un nome che non mi era nuovo, in quanto mia madre era solita ascoltarlo. In particolare da bambino avevo praticamente imparato a memoria “La guerra di Piero”, un brano che ancora oggi sa scavare nel profondo. “Ci mancheranno le sue storie”, diceva Vincenzo Mollica in quel servizio. “Ci mancherà la discrezione, la sua dignitosa riservatezza, quel suo parlare in pubblico solo se c’era qualcosa da dire”.

Tutto vero. E forse anche per questo, o semplicemente per la grandezza della sua musica e delle sue parole, mercoledì 10 gennaio il cantautore veronese Gilberto Lamacchi, accompagnato da sei musicisti e due lettori, ha lenito in parte questo dolore. Lo ha fatto con un concerto, partecipato e riuscito. 25 anni non sono bastati a far scomparire il peso di questa mancanza, ma d’altra parte non sono neppure riusciti a scalfire un’opera eccezionale, o come l’ha definita Enrico De Angelis nell’introduzione alla serata “sublime”, qual è “La buona novella”. 

A questo album è stato dedicato l’evento che si è svolto qualche giorno fa al Teatro Santa Teresa, zona sud di Verona. Lo spazio è stato riempito da circa 250 persone, perlopiù over 50. Un risultato non scontato per una serata infrasettimanale. Ma d’altronde un tributo doveroso, per un anniversario importante. Ma, e qui la sorpresa per molti, l’opera è stata proposta con la veste donatale dalla PFM, Premiata Forneria Marconi.

Il risultato di questo arrangiamento, progressivo come lecito attendersi da uno degli act italiani più importanti in tal senso, si può ascoltare in “A.D. 2010 – La buona novella”. Gli astanti hanno quindi dovuto presto dimenticare gli arrangiamenti originali, ben più intimisti, per cercare di seguire andamenti più complessi. Già con “L’infanzia di Maria (incluso La Tentazione)” si rimane straniti, dinanzi a un violino che colora in modo non riconoscibile un classico. Non da meno “Il ritorno di Giuseppe (incluso Il Respiro del Deserto)”, che rivaleggia per lunghezza con la precedente traccia. Circa 10 minuti l’una, un boccone che, ammetto, non è stato semplice da mandare giù live per la prima volta. E questo nonostante l’eccellente qualità artistica in gioco, nonché esecutiva. 

Sta di fatto che questa soglia di sbarramento è stata superata dal pubblico, che con “Il sogno di Maria” si accomoda più facilmente su una riproposizione che ha, aldilà delle metriche vocali, più punti di contatto con il classico del 1970. “Ave Maria (incluso Aria di Maria)” altrettanto, abbellita da assoli di chitarra (davvero maiuscola la prova del giovane Martino Posenato) e dal violino mai domo di Eleonora Elio. Ma l’unica canzone che, nella mente dei più, rimane riconoscibile dall’inizio alla fine è “Il testamento di Tito”, che nei suoi 7 minuti riprendere in parte quanto suonato nel magico doppio live del 1978, con De Andrè accompagnato dalla PFM. Non sono da meno gli altri pezzi.

La band che ha accompagnato Gilberto Lamacchi, fedele all’interpretazione di Franz Di Cioccio, è davvero di primo piano, a cominciare da Claudio Moro, chitarrista attivissimo e di una bravura difficilmente quantificabile. E un ruolo di pregio lo giocano anche Giulia Cailotto e Andrea de Manincor, che con le loro letture hanno dato respiro allo spettacolo. Così come eccellente è stata l’introduzione di Enrico De Angelis, che ha usato parole cangianti per descrivere “La buona novella”.

Foto di Nathalia Sales e Gianni Daverio.

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