Dopo due romanzi, due thriller di grande successo editi da Giunti (Il Predatore di Anime e Il 9 che uccide), torna in libreria lo scrittore veronese Vito Franchini con un nuovo libro, Tigre d’Africa. Un testo, primo di una trilogia, che ha tutt’altri sapore e ambientazione, con l’infinito sfondo dell’Africa.

Franchini, come mai questa scelta?

«Io provengo dal genere avventura. Ho pubblicato diversi romanzi da perfetto sconosciuto, con l’autopubblicazione su KDP, una piattaforma che offre grandi opportunità per chi fatica a trovare case editrici disposte a investire. Quando la Giunti mi ha chiesto cosa avrei gradito proporre quest’anno, non ho resistito alla tentazione e ho dato in lettura il testo che poi è diventato “Tigre d’Africa”. Ed eccoci qui.»

Quanto peso hanno avuto in questa fascinazione le sue vicende personali e poi professionali?

Vito Franchini

«I miei thriller sono intrisi delle vicende che vivo a causa della mia professione (carabiniere, ndr), che è una fonte inesauribile di ispirazione. Quando invece scrivo di avventure lavoro maggiormente di fantasia, ma anche in tal caso ho la fortuna di poter attingere da storie di vita vissuta, da mio padre prima e da me in prima persona. Ho molti anni di vita in Africa, anche recenti; quindi, di fatto, narro di cose che conosco, in qualche modo. Ho collocato la trama nei primi del ‘700, di conseguenza ho dovuto contestualizzare immergendomi negli studi storici. Lo trovo estremamente divertente, non conosco passatempi più rigeneranti.»

Qual è il focus di questo nuovo romanzo?

«Come nei precedenti, gli argomenti sono diversi. Per non annoiare, provo a spiazzarti. Il mio obiettivo, con “Tigre d’Africa”, è omaggiare la preziosa, inarrivabile eredità letteraria lasciata dal maestro incontrastato dell’avventura: Wilbur Smith.  Autore “enorme”, anche scomodo e vituperato e, per certi versi, sin troppo prolifico. I suoi romanzi africani, quelli della saga dei Courtney, principalmente, sono un’enciclopedia sull’Africa dal 1600 in poi, e io ho inteso immergermi in quelle acque per seguire la scia dei suoi protagonisti. Ne nomino alcuni, che solcavano quei mari nello stesso periodo. Non è emulazione, non provo nemmeno ad accostarmi a quel totem, ma il mio romanzo costituisce, nelle mie intenzioni, un tributo al suo prezioso lascito.»

Il motivo della “città meravigliosa” è tema utopistico che attraversa tutta la cultura occidentale. Qual è a suo giudizio oggi l’elemento o gli elementi di cui avremo bisogno per avvicinarci alla “meraviglia”?

«Tra le mie passioni c’è l’antropologia, soprattutto quella evoluzionistica. Non sono un esperto, ma ho letto molto di quegli ambiti scientifici. Non è difficile dimostrare come l’utopia della società perfetta sia quanto più distante possa esistere dalla nostra impostazione genetica. La nostra evoluzione, come singoli e come membri di comunità, lo prova senza timore di smentite. Una civiltà come quella della città meravigliosa, semplicemente, non può esistere. Io però scrivo romanzi, quindi mi sono divertito a ipotizzarla, e condividerla con i miei lettori.

Per avvicinarci a quella meraviglia occorrerebbe usare la forza, l’imposizione, alterare la nostra essenza. Stralci di tale contraddizione si evincono anche nella mia trama, naturalmente, ma ho cercato di giocare a nascondino, e gli elementi di instabilità dell’utopia sono nascosti bene tra le righe. Almeno credo…»

Nel suo primo libro una questione era la difesa delle donne contro la violenza, nel secondo l’ossessione per un numero: in questo, qual è il tema dominante?

«L’Africa, semplicemente. Il protagonista del romanzo si cala in quel continente da adulto, per la prima volta, con pochissima esperienza di vita vissuta, essendo stato rinchiuso nella teca di un sogno per tutta la vita. Si ritrova, quindi, a dover combattere per sopravvivere, ogni giorno, tra pericoli che arrivano da ogni angolo.»

Non c’è il rischio di disorientare il lettore?

«Me lo auguro! La fortunata serie dei thriller con Nardo Baggio e Sabina Mondello ha ancora molto da dire, e mi auguro di poter tornare a narrare le loro storie. Però non volevo cadere nella trappola degli autori che non riescono a sdoganarsi da un personaggio. Faccio l’esempio di Lee Child e del suo (eccezionale) Jack Reacher. Una grande penna, sacrificata a un cliché.  Pagherei oro per essere disorientato da Child.»

Se dovesse individuare un elemento che ti inorgoglisce in questo libro, quale sarebbe?

«L’aver inserito nella trama avventure reali, vissute in Africa da mio padre prima della mia nascita, quando era un missionario laico. Me le ha raccontate, condendo il tutto con descrizioni particolareggiate e agevolate dalle diapositive che ha scattato in quegli anni. Madhat, nella mia testa, è un po’ Ferruccio Franchini, mancato troppo presto, tanti anni fa, proprio in Africa.»

Facciamo un passo indietro. Nelle sue precedenti prove, alcuni hanno notato come la figura femminile, seppur centrale, risulta debole e talvolta schiacciata dal protagonista maschile; il tutto risulta molto poco “woke”. Condivide questa valutazione?

«Non del tutto. Ho preso atto di certe osservazioni, ma va detto che ho decine (e decine) di signore e signorine che mi hanno contattato dopo aver letto i miei thriller, riconoscendosi in Sabina. Decidere, da maschietto, di puntare su una protagonista donna è un po’ come scegliere di fare una nuotata nella lava, ne sono conscio, ma ho accettato il rischio. Ad oggi non me ne sono pentito.

In Africa nel 1700, dove è ambientato Tigre d’Africa, la lotta per l’emancipazione femminile non aveva alcuno spazio di manovra, come immaginerai. Ci sono stato attento, ciò non di meno. Il capo della città era una donna (la più anziana) fino a pochi anni prima del grande Anafì. Inoltre, personaggi come Lana e, soprattutto, Zainabu, sono cruciali e quest’ultima è probabilmente quella che sta riscuotendo i maggiori consensi, alla luce dei primi feedback che ho dai lettori.

Riassumendo, non credo che verrò mai eletto come bandiera della lotta per l’emancipazione femminile, ma è una tematica a me cara, anche dal punto di vista professionale (sono notoriamente un cultore della lotta ai reati da “codice rosso”). Il termine Woke, poi, è di derivazione antirazzista. Non ho difficoltà ad ammettere di essere un convinto assertore della netta superiorità della razza “nera” sulla “bianca”, e il mio libro, assieme ai successivi, ne sono una chiara prova.»

Qual è la salute dell’editoria a suo giudizio? Come sta evolvendo il gusto dei lettori a suo avviso?

«Ormai ci sono dentro da qualche anno. Noto una vera e propria lotta per la sopravvivenza dell’editoria cartacea, con strategie che sono funzionali ed efficaci quanto basta. C’è stata, a mio giudizio, una livellazione con l’offerta di altri prodotti commerciali: si offre tantissimo, con novità ogni settimana, per cercare di tenere il passo con gli altri tipi di intrattenimento moderno. I lettori vecchio stampo tengono duro, ma il grosso dell’offerta non è per i loro palati. Non sono ancora in grado di dare giudizi davvero strutturati o individuare strategie: da neofita mi limito a osservare questo mondo come un bambino al Luna Park, felicissimo che qualcuno mi ci abbia portato dentro.»

Quali sono i suoi prossimi progetti?

«Scrivere, qualunque cosa accada. Ho diverse trame pronte, su entrambi i canali (thriller e avventura) e qualcuna in fase di (lenta) stesura.  Spero che la giostra continui a girare.»

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