Ricordare… conservare… catalogare… esigenze innate dell’uomo che possono nel tempo trovare risposte in molti modi. Una di queste è senz’altro quella della letteratura: i libri, in fondo, formano un ricco e potente archivio di idee, sensazioni e sentimenti comuni, raccogliendo le percezioni, i gesti e le attitudini dell’intera umanità. Chi scrive libri, però, è spesso mosso dalle stesse motivazioni che stimolano chi crea musei, ricercando e raccogliendo gli oggetti e i reperti che segnano un determinato percorso dell’uomo, nel tempo e nella storia.

Chi ha tentato di unire entrambe queste modalità in un unico e straordinario progetto è il Premio Nobel 2006 per la Letteratura Orhan Pamuk. Lo scrittore turco, nato nella parte asiatica di Istanbul nel 1952 ma vissuto fin dalla più tenera infanzia nella parte europea, ha saputo “sdoppiare” il suo personalissimo progetto donandogli una doppia veste: letteraria, con un romanzo dal titolo Il museo dell’innocenza, uscito nel 2008, e museale appunto, con un edificio – a cui è stato ovviamente dato lo stesso titolo del libro – inaugurato nel 2012 in una palazzina a tre piani situata nel quartiere di Çukurcuma ad Istanbul.

«Ciascuna città avrebbe bisogno di un proprio Museo dell’Innocenza per esplorare e mostrare la propria individualità» ha spiegato in passato lo scrittore, parlando della sua “opera”. «Non ho creato il museo sull’onda del successo del romanzo, ma il primo è stato concepito fin dall’inizio insieme al secondo.»

Nei suoi libri si confrontano – e non potrebbe essere altrimenti vista la singolare natura dei luoghi natii – l’Oriente e l’Occidente. In Istanbul, ad esempio, Pamuk racconta la sua infanzia e adolescenza mescolandole alla storia della sua città, con un gioco variegato di fotografie in bianco e nero che rappresentano una parte integrante del testo. Paesaggi e scorci meravigliosi, capaci di generare emozioni e portare il lettore ancora più all’interno di questa sterminata metropoli, amatissima dall’autore de Il mio nome è rosso e Il libro nero. Pamuk, però, ama moltissimo anche il nostro Paese, che frequenta spesso per occasioni ufficiali o per viaggi di natura personale.

Kemal e Fusun

A portarlo in Italia, per sua stessa ammissione, sono la curiosità intellettuale, la passione per l’arte, il piacere per la ricerca e per la scoperta. Gli stessi motivi che l’hanno indotto a recuperare gli oggetti per il museo, che si ispira alla storia d’amore al centro del suo romanzo, fra Kemal e Fusun. In particolare, nella fiction immaginata da Pamuk, è proprio Kemal, ricco e viziato rampollo dell’alta borghesia turca, a creare il museo raccogliendo gli oggetti che sono appartenuti alla sua amata, dalle origini più umili.

La relazione di Kemal con Fusun inizia come moltissime storie d’amore, in maniera casuale. Poi decidono di incontrarsi regolarmente, per un paio d’ore, in un appartamento disabitato di proprietà della famiglia di Kemal, che fa parte della ricca borghesia turca. L’appartamento è in realtà un elemento chiave del romanzo.

È un tesoro di oggetti domestici indesiderati e scartati, una sorta di memoriale della famiglia di Kemal e della loro vita nel corso degli anni. È qui che muoiono i vecchi vestiti e le scarpe della madre del ragazzo. Ed è sempre qui dove i giocattoli dell’infanzia vengono mandati a languire. Si tratta, insomma, di una specie di grotta di Aladino di storie familiari e souvenir. E così, pian piano, il ruolo dell’appartamento, sacro punto d’incontro fra i due innamorati, diventa sempre più significativo man mano che il romanzo procede.

Un’esperienza “letteraria”

Situato in un vecchio edificio di tre piani costruito nel 1897, il museo creato da Pamuk espone un’enorme varietà di manufatti, tra cui vestiti, giocattoli, utensili, biglietti dell’autobus e del cinema, libretti bancari, dipinti, fotografie e vari altri oggetti dell’epoca in cui il romanzo è ambientato.

Questi oggetti sono curati cronologicamente secondo i capitoli del libro e sono esposti in ben 83 vetrine. Un’installazione di 4213 sigarette che Füsun ha fumato è la prima cosa che accoglie il visitatore. Una delle vetrine pubblica una pubblicità in bianco e nero di bibite gassate realizzata da due famosi inserzionisti contemporanei, Serdar Erener e Sinan Çetin, come regalo per Pamuk.

Ogni singolo oggetto corrisponde ad un momento descritto nel libro e l’esposizione all’interno del museo è stata ordinata in modo che le note scritte per ciascun oggetto possano diventare, se lette nel corretto ordine, una sorta di romanzo: «Quando il visitatore entra nell’edificio inizia un’esperienza simile alla lettura del libro e quando ne esce lo ha virtualmente terminato», ha raccontato Pamuk. «La metà dei visitatori, in realtà, non ha letto il libro, ma è incuriosita da amici o parenti che invece hanno letto la mia opera letteraria.»

L’edificio che ospita il piccolo “Museo dell’Innocenza”

Il Museo è una sorta di “reliquiario” del Novecento, con reperti a volte talmente piccoli da passare quasi inosservati. C’è un oggetto, in particolare, che ben rappresenta la doppia natura di Istanbul e del popolo turco. Si tratta di un piccolo orologio da tasca con due quadranti posti sui due lati: uno indica il tempo con numeri romani, l’altro con numeri arabi che evidenziano anche i momenti del giorno in cui bisogna pregare.

«È un oggetto perfetto per descrivere il periodo di transizione dall’Impero d’Oriente alla Repubblica Occidentale. Sono convinto che il nostro museo deve rimanere equidistante dall’est e dall’ovest. Nei miei romanzi tratto spesso del desiderio degli abitanti della Turchia di abbracciare la propria storia, cultura, tradizione e religione» ha poi concluso l’autore «ma c’è anche un desiderio, altrettanto forte, di essere globalizzati, occidentali e modernizzati. Sono due tendenze eternamente in contrasto tra loro, presenti nel cuore di ogni turco.»

Una miscela esplosiva

La città di Istanbul e la sua gente svolgono un altro ruolo chiave nel “Museo dell’innocenza”. Pamuk ritrae la sua città come una miscela cosmopolita e caotica di storia e modernità. Una città di forti tradizioni e valori familiari. Una città dove i matrimoni devono avvenire tra pari sociali e dove la sacralità della famiglia è scolpita nella pietra. C’è una regola per gli uomini e un’altra per le donne. Un marito donnaiolo è virile e amante del divertimento, mentre una donna simile si ritroverebbe rapidamente divorziata ed emarginata dalla società.

Le donne non sono indipendenti, il loro status è definito dal marito e dalla ricchezza della loro famiglia. Insomma, stiamo parlando di una denuncia di un mondo che, da quando c’è Erdogan al potere, sta addirittura regredendo a una condizione che nei decenni precedenti era progressivamente migliorata, ma molto di quel “lavoro” è stato vanificato negli ultimi tempi.

Un vero peccato. Istanbul ma in generale la Turchia rappresentano la porta per l’Oriente. E la denuncia di scrittori e intellettuali dell’attuale condizione, della donna ma non solo, dovrebbe rappresentare un campanello d’allarme per i governi occidentali, che incuranti della condizione del popolo turco scendono a patti con il dittatore che è a capo del loro Paese. Senza scrupoli.

L’importanza della memoria, si diceva. Da un libro o da un museo può arrivare alle nostre orecchie un grido che, con il tempo che passa, si fa sempre più assordante.

Istanbul – Foto da Pexels di Lucian George

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