Pianista di grande levatura, Remo Anzovino (friulano, ma di origini napoletane) è uscito da qualche settimana con l’onirico “Don’t forget to fly”, un album di brani originali, tutti suonati esclusivamente al pianoforte dall’artista. Il quale con questa sua nuova opera intende condurre per mano l’ascoltatore in un volo di “icariana” memoria. Volo, però, che stavolta non finisce male come nel caso del celebre mito greco, anzi…

Abbiamo incontrato nel periodo di promozione del disco Anzovino, che ci ha raccontato la genesi e i retroscena di un disco che rimarrà sicuramente una pietra miliare nella sua peraltro già vasta e notevole produzione musicale.

Anzovino, innanzitutto ci racconti com’è nato “Don’t forget to fly”?

«La storia di questo disco nasce un anno e mezzo fa, quando su uno dei miei quaderni scrissi questa frase: “non dimenticare di volare”. Un invito sicuramente indirizzato in primis a me stesso. Quando scoppia la pandemia nello stesso anno avevo fatto già alcuni concerti a Londra, in Giappone, alcune date del tour in America e avevamo già pianificato con il mio staff alcune date a Mosca e San Pietroburgo. In generale, però, ognuno di noi aveva qualcosa da fare nel 2020 che non ha potuto fare. Mi ero dato una regola durante la pandemia, un periodo durante il quale ho scritto tanta musica su commissione (da “Napoleone. Nel nome dell’arte” al “Concerto in piano solo” composto per l’orchestra della Magna Grecia di Taranto, ndr): non volevo, però, scrivere un disco mio, personale, mentre ci trovavamo dentro quell’incubo. Volevo ambientarlo e viverlo solo dopo. E ora noi stiamo finalmente vivendo un mondo “dopo”. Per chi ha vissuto questa esperienza del Covid e del lockdown ci sarà sempre un prima e un dopo e per fortuna il nostro cervello ha una capacità di adattamento straordinario.»

E quindi? Cosa ha notato nel mondo in quel “dopo”?

«Che gli esseri umani sono diventati degli strani volatili con le ali incrinate. Siamo schiacciati da un mondo molto più incerto. Un mondo dove c’è stata la pandemia e dove oggi c’è la guerra, i fiumi che non hanno più l’acqua e i mutui sono raddoppiati. La sensazione è che siamo schiacciati da tutto questo, una situazione che ci porta a rifugiarci nelle nostre cosiddette zone di confort. Allora ho pensato semplicemente di inventarmi una storia. La storia è sostanzialmente quella legata a un ricordo di una canzone di un grande gruppo rock contemporaneo: un pezzo famosissimo dei Foo Fighters che si intitola “Learning to fly. Ho pensato che il gruppo, con quella canzone, suggeriva agli ascoltatori di imparare a volare.

Ecco, oggi è un po’ come se ci fossimo rotti una gamba. Quando ci succede qualcosa del genere poi bisogna rieducare l’arto. Bisogna reimparare a camminare, con pazienza, con l’esercizio quotidiano e con la fisioterapia. Volevo con questo disco consentire a chi lo ascolta di realizzare insieme a me questo percorso. E così, per tradurre visivamente questa idea a un certo punto ho scritto un soggetto. Ho composto tante musiche per film scritti da altri e nel farlo ho fortunatamente imparato tante cose. E fra queste che era importante per me scrivere un soggetto.»

Un soggetto su cosa?

«Ho pensato che quello di cui c’era veramente bisogno era di un disco completamente ambientato nell’aria, nello spazio, nella luce. E per riuscire a portare la mia fantasia al servizio delle persone occorre capire che ciò che accade dal secondo 1 del primo brano fino all’ultimo secondo dell’ultimo brano è tutto ambientato in un sogno. È un disco che appartiene alla dimensione del sonno, dunque, e al fatto che mentre lo vivi sei già addormentato.»

I titoli dei brani suggeriscono una serie di immagini che ci accompagnano in maniera molto esplicita nel corso dell’ascolto del disco…

«Io non sono un cineasta, sono un musicista. La mia macchina da presa sono i suoni. Potevo scrivere un film fatto solo con i suoni, dando la possibilità al pubblico di provare la sensazione quasi tattile, fisica, di vivere un’elegia dei desideri e proiettare su un cielo carico di nuvole la frase clou: non dimenticare di volare. Come una sorta di post-it attaccato sul frigo di casa. Ogni essere umano che non ha anche il più piccolo dei desideri è un essere umano sterile, inutile, anaffettivo. Ed è proprio qui il bello: vedere l’entusiasmo con cui è recepito il mio disco mi emoziona e mi fa capire che ci dobbiamo provare ancora, tutti insieme.

L’uomo deve fare qualcosa per realizzarsi, per se stesso, per gli altri. Volare significa guardare al domani, al futuro. Si ha la sensazione di volare ogni volta che sentiamo di appartenere a un’altra persona. Quando siamo innamorati, quando ci proiettiamo verso i nostri figli, gli amici. Quando concepiamo un progetto professionale o artistico e lo portiamo avanti con tutte le nostre forze. Quante volte lo abbiamo detto nella nostra vita? Ecco, con questo disco volevo invogliare ad attivarsi per tornare a ridirlo.»

Lei è un avvocato penalista. Un lavoro fatto prevalentemente di parole. Ha lavorato in passato su film dedicati ai grandi pittori della storia. Quindi su immagini dedicate a chi in passato ha lavorato su altre immagini. Ci racconta, in questi casi, qual è stato e qual è il suo modo di lavorare?

«La composizione è una cosa che cambia a seconda che tu stia componendo per un’altra disciplina, come il cinema, o se stai componendo musica assoluta. Ogni compositore per le immagini ha il suo metodo. Io ho sempre pensato, fin da quando ho sperimentato in prima media a 11 anni il dono della creatività, che la musica appartiene all’autore finché ce l’ha nella sua testa. Quando la inizia ad abbozzare sulla tastiera o addirittura la scrive su un pentagramma già non gli appartiene più. Perché in fondo il vero proprietario della musica è sempre e solo il pubblico. Come artista puoi avere un rapporto con l’idea quando sei nella gioia, nell’estasi che ti procura mentre sta nascendo nella tua testa e nel tuo cuore. Ma quando poi esce da te non ti appartiene più, ma appartiene al pubblico, a cui peraltro occorre consegnare degli oggetti sonori resistenti.»

Cosa intende per “oggetti sonori resistenti”?

«Significa sfrondare dal brano tutto ciò che non riguarda te, il tuo ego, facendo in modo di creare una musica che viene ascoltata tre, quattro, venti volte senza stancare mai le persone. Quando lavori alla musica di un film non c’è molta differenza: devi avere la capacità di tirare fuori delle cose dal film che nemmeno coloro che lo hanno realizzato conoscono. Anche io sono spettatore, ma come compositore ho la fortuna di poter dare in qualche caso la mia musica a un film. Il mio lavoro, comunque, è simile a quello del cineasta. In fondo un film funziona quando è scritto bene e lo capisci già leggendo la semplice sceneggiatura. Se poi ci si pensa il cinema è un’arte nata dalla fotografia e per le immagini. La musica nei film nasce perché i proiettori dei primi cinema facevano troppo rumore. Fino a quando non arriva il binomio Leone-Morricone o Bernard Hermann-Hitchcock che rivoluzionano il senso delle colonne sonore per i film. Tutti, dopo, hanno imparato da questi grandi maestri.»

Ci spieghi meglio…

«Lo schermo è illusorio, bidimensionale. La musica deve dare il punto di vista del musicista sulla storia. Non deve più solo andare appresso alle immagini. La musica deve dire cosa c’è dietro le immagini, contrastarle, contrappuntarle. Per farlo però bisogna prima di tutto capire il film. E per capire un film bisogna guardarlo molte volte. Il triangolo è dato dallo sguardo del regista, dalla luce e dal ritmo di un film che è dato dal montaggio. Quando c’è un grande montatore è più facile realizzare una colonna sonora, perché la musica per certi aspetti è quasi già scritta. Io guardo un film più volte per immagazzinare il più possibile le immagini e i tempi del film. A quel punto scrivo la musica che questa visione mi ha ispirato. A quel punto mando l’idea centrale al regista – la mia idea di come dovrebbe funzionare idealmente la musica del film – e se viene accettata poi si scrivono le musiche dedicate alle singole scene.

Questo è stato il grande insegnamento dei grandi maestri: il tuo disco deve avere la capacità di identificazione e di aprire nella testa delle persone delle immagini. Per questo, ribadisco, non si può essere autobiografici come musicisti, se non in rarissimi casi. L’artista dev’essere piuttosto un rapinatore. Deve saper trasformare una storia in musica. Certo, al cinema le immagini ci sono e devi considerarle. Anzi, non solo le immagini. Se nel film c’è, ad esempio, il rumore di un aeroplano in una determinata scena, come musicista dovrai considerare la frequenza di quel suono e magari utilizzarla per creare un effetto musicale particolare.»

Don’t forget to fly”, invece, è un film fatto di immagini che si creano nella testa degli ascoltatori. Una pagina bianca.

«Volevo produrre un disco con un suono naturale del pianoforte. Quando si ascolta questo disco si ha la sensazione netta che lo sto suonando davanti a te e solo per te, in quel momento. L’essenzialità e nessuna aggiunta strumentale risulta molto più potente di tante sovrastrutture. Ho voluto far sentire questo grande mammifero sonoro, il pianoforte, che suona per l’ascoltatore.»

L’ha registrato a Fiesole, al Teatro Nuovo. Perché?

«A volte ci sono degli allineamenti degli astri che non si possono ignorare. Il Teatro Nuovo di Fiesole ha un’acustica particolare, curata da chi si è occupato anche del Mandela Forum a Firenze e della Sala Nervi in Vaticano. Mi è stato concesso per quattro giorni durante i quali ho potuto suonare senza l’utilizzo di cuffie o di uno studio di registrazione. Quando suoni in studio certi suoni risultano inevitabilmente un po’ asettici, visto il filtro del banco del mixer. In quei casi, anche con il più bravo dei fonici, non otterrai mai un suono avvolgente. Avevamo invece bisogno di un luogo dove il suono “corresse”, ma non potevamo farlo all’interno di una chiesa dove il riverbero avrebbe riempito troppo. Avevamo invece a disposizione questo teatro da 300 posti che aveva le caratteristiche acustiche ideali. A questo si è comunque aggiunto un grande lavoro di ripresa del suono da parte di Stefano Amerio. Con microfoni inseriti dentro il piano, a tre metri, dalla platea e altri ancora dalla balaustra. Nel missaggio c’erano 16 canali stereo del piano solo. Il suono alla fine risulta a dir poco gigantesco.»

Prima parlava di allineamento degli astri. A cosa si riferiva?

«A Fiesole aveva fatto le prove di volo Leonardo da Vinci, 500 anni fa. Quando l’ho saputo la scelta di registrare lì è stata a dir poco scontata, facile da prendere.»

La copertina dell’album

La foto di copertina rappresenta qualcosa?

«Era l’alba, le 7.02 del 7 gennaio 2023. L’idea era quella di fare le foto all’alba. Avevo finito di registrare da sei ore il disco. Avevo ancora tanta adrenalina in corpo. Mi affaccio, da Fiesole, sulla terrazza che guarda su Firenze e le sue luci notturne. Mi porto il quaderno in cui ho scritto il disco, a mano. Aveva ancora attaccati i miei post-it gialli, con i miei appunti. Mi sono allontanato un po’, per rimanere da solo con la mia musica, quasi disinteressandomi al fotografo e alle altre persone che erano con me. Mi sono appoggiato al muretto e ho cominciato a leggere la musica, mentalmente. E lì, senza che me ne accorgessi, Paolo Grasso mi ha immortalato in quello scatto. C’era una luce transitoria, che voleva venire fuori. C’era la natura, una città, un cielo, ma il mio cielo era nel quaderno, dove c’è la mia musica. Mi è sembrato un racconto perfetto per l’album.»

La prima traccia si intitola “The second life of Icarus”. Di che si tratta?

«Stai dormendo, stai sognando e hai il desiderio fortissimo di staccarti da terra. Lo fai, non precipiti, prendi posizione nell’aria. È un brano preludio. È la seconda vita di Icaro, il quale si costruisce nella mitologia le ali di cera, ma si avvicina troppo al Sole, che gli brucia le ali. Muore per eccesso di ambizione e curiosità. Ho pensato, però, di dargli una seconda chance? Quella seconda chance che siamo tutti noi.»

A proposito. Fra i vari titoli è come se fosse disseminato una specie di rebus, con tante parole che hanno a che fare con il cielo: l’aria, la luna, volare, la gravità, gli angeli, le nuvole. Ma manca proprio la parola riferita alle ali. Perché?

«Si, mancano le ali, perché le ali non sono previste. Questo volo non le prevede, in realtà. All’interno del disco c’è anche una frase tratta da un libro di un grande filosofo della scienza, Gaston Bachelard, che scrisse la psicanalisi dell’aria, e a un certo punto dice: nel mondo del sogno non si vola perché si hanno ali, ci si crede ali perché si ha volato. Questo disco dice che l’uomo deve volare e che ogni volta che lo desidera e quando sogna qualcosa è già un essere umano che ha deciso di volare.»

Proprio oggi avete annunciato il primo blocco di date del suo tour 2023, con qualche data che “sfora” già nel 2024. Ne annuncerete anche delle altre, prossimamente. A Verona verrà?

«Spero di sì. Verona è una città importante di per sé ma per me, in particolare, rappresenta davvero molto. Ricordo un bellissimo concerto di qualche anno fa, al Teatro Romano, con Uri Caine. Rappresenta un bellissimo ricordo.»

Queste le prossime date del tour 2023-2024 di Remo Anzovino:

12 luglio Corigliano Rossano (CS) – Contrada Momena, a lume di candela
12 agosto Codroipo (UD) Villa Manin, concerto all’alba
13 agosto Genova – Teatro Carlo Felice
22 agosto Solferino (MN) – Memoriale Internazionale della Croce Rossa
27 agosto Vizzola (PR) – I Parchi della Musica 2023
2 settembre Galzignano Terme (PD) – Anfiteatro del Venda, a lume di Candela
15 settembre Catanzaro – Complesso Monumentale San Giovanni
24 settembre Cascina (PI) – Festival Art View “Le donne nell’arte”
15 ottobre Napoli – Piano City
4 ottobre Torino – Chiesa di Santa Pelagia
29 gennaio Roma – Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi

A parte la foto di copertina, le altre immagini a corredo dell’articolo sono tutte di Paolo Grasso.

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