La cronica crisi della discografia italiana, dovuta in gran parte alla diffusione di internet e alla possibilità di scaricare gratuitamente sul proprio computer gli album o le singole canzoni dei propri beniamini musicali, appare ormai più irreversibile che mai.

Le cosiddette major (case di produzione musicale) preferiscono, pertanto, investire i propri ridotti budget su “prodotti” di sicuro successo, trascurando  inevitabilmente i giovani emergenti. Vengono premiati soltanto coloro che partecipano ai talent show televisivi, ma si tratta quasi sempre di fenomeni effimeri, di breve durata. Gli editori indipendenti tentano di coprire il vuoto immettendo sul mercato nuove proposte di qualità, ma anche loro fanno enorme fatica a far quadrare i conti e stanno, pian piano, abbandonando la battaglia. Insomma, a fronte di una crescente domanda (il movimento musicale italiano, in realtà, continua a dare incoraggianti segni di vitalità) manca chi realmente creda (e investa) sui giovani talenti che intendono perseguire il sogno di essere, un giorno, musicisti professionisti.

Tutti temi al centro del dibattito in occasione dell’interessante “Eurobass Day” che si era tenuto a Verona alcuni anni fa e a cui avevano partecipato – nell’affollato Palazzo della Gran Guardia – alcuni dei più importanti rappresentanti del settore: discografici, autori, talent scout, manager, produttori e direttori artistici. Fra questi era presente anche l’eclettico musicista romano (ma di origini siciliane) Max Gazzè, che come i suoi fan sanno ha vissuto gran parte della sua infanzia e della sua adolescenza fra Belgio e Francia, dove si è avvicinato alla musica e da dove ha mosso i primi importanti passi della sua esperienza artistica.

Oggi Gazzé è cantautore affermato di fama internazionale oltre che bravissimo bassista, con all’attivo decine e decine di migliaia di album venduti. Dagli esordi ad oggi l’autore di “Una musica può fare” e “Cara Valentina” (solo per citare alcune delle sue hit più famose) ha partecipato anche a innumerevoli progetti musicali, fra cui anche celebri collaborazioni con artisti italiani e stranieri.

In occasione del suo compleanno (ieri, 6 luglio, 56 anni) vi proponiamo l’intervista – ancora attualissima – che all’epoca di quell’evento ci aveva concesso e che ancora oggi può fornire spunti interessanti e chiavi di lettura importanti per tutto il mondo musicale italiano.

Max, cosa significa oggi essere musicisti professionisti in Italia?

“Significa non essere considerati davvero lavoratori. Il problema è che non si tiene conto, e spesso non si conosce, del lavoro che realmente c’è dietro ogni produzione musicale e, in generale, ogni percorso artistico”.

Perché secondo lei si è diffusa quest’idea?

“Perché si ritiene il sacrificio parte fondamentale del lavoro e la musica viene vista soltanto come diletto o al massimo una maniera di esprimersi. Il momento creativo rimane la scintilla fondamentale, ma poi l’idea va realizzata e in quel momento intervengono altri fattori, spesso anche frustranti, per realizzare il prodotto artistico e permettere al pubblico di fruirne”.

Qual è secondo lei il compito dell’artista?

“Quello di emozionare. Attraverso un processo che gli permette, con lo strumento musicale o la voce, di invitare chi ascolta ad entrare nello stesso stato di contemplazione e sublimazione che vive nel momento in cui crea, trasferendo agli altri le sue percezioni. Da una fonte metafisica, l’ispirazione artistica, si passa ad un passaggio terreno, la realizzazione del prodotto musicale, per tornare ad un piano nuovamente metafisico, lo stato di contemplazione del fruitore. L’artista ha questa missione e andrebbe quasi tutelato come gli animali in via di estinzione del WWF”.

Che cos’è, per lei, il talento?

Un selfie di Gazzé con Fabi e Silvestri – Foto dal profilo Facebook dell’artista

“E’ una forma estrema di espressione della propria passione coniugata alla predisposizione ad una certa azione. Il talento, però, và coltivato. Spesso non ci si rende neanche conto di saper fare bene una cosa finché non la si esercita. Se Jimi Hendrix, ad esempio, non avesse imbracciato una chitarra non si sarebbe mai accorto di avere quel tipo di capacità. Bisogna allo stesso tempo essere in grado di emozionare e una persona che sa cantare bene, ma non sa anche trasmettere qualcosa, per me non ha un vero talento. Lo stesso Hendrix diceva “I play for your heart” (“io suono per il tuo cuore, ndr): si deve raggiungere il cuore, l’anima delle persone”.

A proposito, che opinione ha dei talent show come X Factor o Amici?

“Quando li vedo alla tv mi chiedo se quei cosiddetti talenti siano in realtà confezionati ad hoc o se ci sia in quei ragazzi un bisogno vero di esprimersi accompagnata, appunto, al talento per il canto. Il problema sta che in quei casi il talento è sottoposto ad esigenze di forma più che a un’esigenza personale”.

Ritiene, però, che possa essere una strada per poter emergere?

“Se Bach e Mozart avessero partecipato alla stessa edizione di X Factor uno dei due sarebbe stato inevitabilmente eliminato e già questo implica la necessità di inquadrare il fenomeno entro certi limiti ben definiti. Vedo ragazzi dagli enormi potenziali di crescita. Allo stesso tempo, però, mi fanno tenerezza, perché ciascuno di loro verrà presto dimenticato e sostituito dal vincitore dell’anno successivo: nessuno li seguirà più e tutta l’attenzione sarà soltanto per la nuova star. Che a sua volta, dopo un po’, verrà dimenticato. Alla fine capisco la frustrazione di chi pensa di aver finalmente sfondato e poi all’improvviso viene abbandonato. È una maniera terribile di gestire l’artista e in generale il prodotto musicale. Forse si dovrebbero immettere meno artisti sul mercato e seguirli meglio nei loro percorsi. E’, questa, una chiara responsabilità di chi opera nella musica: non far bruciare il talento mandandolo nella gabbia dei leoni, ma proteggendolo”.

Qual è, allora, la strada per ottenere i propri obiettivi musicali?

“Seguire un percorso progettuale sviluppato nell’arco di qualche anno e che permetta di crescere e conseguire, nel tempo, completezza, come persona e come musicista”.

Cosa consiglierebbe a un ragazzo che si affaccia alla musica, oggi?

“Studiare e fare tanta pratica. Chi coltiva questa passione e va scuola non diventa il più grande musicista di tutti i tempi in un anno. Ci vuole pazienza per poter accumulare le esperienze e gli stimoli adeguati. Il consiglio è quello di andare a cercare anche all’estero ciò che non si trova in Italia. Uscire dal guscio e confrontarsi con altre realtà è comunque importantissimo per riconsiderare i propri mondi e le proprie idee”.

Qual è stata la sua personale esperienza?

“Avendo passato la mia giovinezza in Belgio ho avuto la fortuna di poter andare tutte le sere con il mio strumento nei locali e suonare in jam session con artisti importanti del jazz, che mi hanno insegnato moltissimo. A Bruxelles c’erano all’epoca tanti locali dove dopo l’esibizione dell’artista di turno chi voleva poteva salire sul palco e suonare il proprio strumento. Si è trattata di un’esperienza eccezionale, che mi ha permesso di sviluppare capacità e conoscenze senza eguali, al fianco di ottimi musicisti. In Italia non ci sono più strutture analoghe e bisognerebbe trovare il modo per crearne”.

Max Gazzé – Foto dal profilo Facebook dell’artista

Cosa bisognerebbe fare per migliorare la situazione in Italia?

“Penso ad una sorta di Ufficio di Ricerca e Sviluppo che prenda atto dei cambiamenti in campo musicale e che aiuti gli operatori della musica ad adeguarsi, equilibrando meccanismi che oggi danneggiano la discografia a vantaggio di altre realtà, come ad esempio chi offre servizi internet.

In che modo?

“Si dovrebbe innanzitutto approfondire il problema del diritto d’autore. E poi bisognerebbe aiutare la musica ad entrare dentro la politica in modo da sviluppare un progetto di crescita, culturale ed economico di tutto il settore, che parta dalle scuole e arrivi fino ai festival musicali”.

Ad esempio?

“Senza andare troppo lontano basterebbe studiare ciò che si fa in Francia dove, sicuramente favoriti anche dalla composizione multietnica della sua popolazione, c’è un’attenzione particolare alla musica, di cui si apprezza soprattutto il ruolo sociale. È frutto di una programmazione che parte da lontano e che va avanti da oltre vent’anni. La gente va ai concerti e compra dischi senza problemi, magari risparmiando su altre voci. In Italia, invece, non si vuole pagare per la cultura. Si preferisce pagare per mangiare. Certo, fa parte del nostro dna, ma credo sia nostra responsabilità di oggi fare in modo che in futuro la situazione migliori”.

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