The Last Vinci è lo pseudonimo di Alessandro Vinci, ma Alex per tutti, il quale ci informa così di essere il più giovane dei suoi fratelli. Alex è esuberante, un fiume in piena, di un entusiasmo trascinante.

Ci racconta di aver lavorato molti anni in Italia come musicista e quando si è spostato a Cork, in Irlanda, dove ora risiede, ha ricominciato da zero.

Sembrava uno che in Italia ce l’aveva fatta, un musicista già affermato e con una carriera avviata aveva già calcato palchi molto importanti. Tuttavia i molti vincoli professionali lo spingevano a riflettere se valesse la pena continuare. Dal suo punto di vista si parlava troppo di affari e troppo poco di canzoni.

Alex si sposa e diventa padre molto giovane ma questo non gli impedisce di spostarsi per non lasciarsi fagocitare da un ambiente che sente troppo stretto per lui; grazie anche grazie anche alla forte intesa con la compagna che decide con lui per questa soluzione.

Sembra essere il caso a decidere la destinazione della famiglia. Durante un viaggio a Berlino alla ricerca di opportunità gli viene proposto un prestigioso lavoro nel sud dell’Irlanda, un luogo che autonomamente non avrebbe scelto. Tuttavia trova un ambiente stimolante e che favorisce lo sviluppo del suo progetto artistico che riesce addirittura ad ottenere un finanziamento ministeriale per il suo tour, come il riconoscimento dopo anni di duro lavoro, finalmente. Attualmente oltre a suonare nei The Last Vinci è anche responsabile di un’etichetta indipendente, la Narrow Door Records.

Beh, Alex, sembra che il terreno per lo sviluppo delle attività musicali in Irlanda sia piuttosto fertile

«Senz’altro. Consideri che c’è un progetto pilota per il riconoscimento di un reddito minimo per i musicisti. E che secondo le statistiche questi dopo dieci mesi di reddito garantito riescono a diventare indipendenti. Ci sono molte attenzioni per i musicisti, tanto che durante la pandemia i Covid degli anni scorsi sono stati finanziati progetti alternativi ai tour, che le band ovviamente non potevano fare.»

Da quando si è spostato in Irlanda lavora in una struttura internazionale e l’azienda stessa lo ha sempre sostenuto nel suo rientro nell’ambito artistico e musicale.

«Ho dovuto dimostrare il mio valore perché sono comunque arrivato come arriva uno straniero. Qui pensavo di poter sfruttare il mio curriculum, che era niente male. Invece le attenzioni sul pezzo di carta sono decisamente inferiori rispetto a come ero abituato, mi è stato detto “ok, mettiti lì e mostraci cosa sai fare”. Un po’ disorientante ma decisamente più meritocratico. Si chiacchiera molto meno e si è molto concreti. È comunque dura ma si vede una prospettiva, questo è molto stimolante.»

Cos’ha portato dall’Italia?

«La struttura organizzativa, il mio know how, la mia esperienza. Quello che non mi sono portato dietro è la paura di sbagliare, la sensazione di dover per forza seguire il mercato. Sono decisamente più libero dai condizionamenti e questo mi permette di lasciar fluire la musica per come la sento dentro.»

Questo suo entusiasmo è contagioso, alla fine dall’Italia si è portato anche altro.

«Dopo sette anni che mi ero trasferito sono stato raggiunto da un compagno della vecchia band, con cui l’intesa non è mai venuta meno. Ora è il mio batterista e durante la pandemia abbiamo lavorato tantissimo per la produzione del nuovo disco, ovviamente con le modalità possibili.»

Mai avuto nostalgia dell’Italia?

«A Cork mi trovo molto bene, mi sento realizzato. La dinamica sociale è ottima. C’è molta voglia di musica e la mente aperta. Anche mia moglie si è inserita bene e ora ha una sua attività. Il progetto di vita è completamente condiviso; non potrebbe essere diversamente visto che abbiamo sei figli. È sicuramente grazie a lei che posso permettermi di fare il musicista.»

Che musica si ascolta in Irlanda?

«Ovviamente di tutto come ovunque ma in particolare direi che si sente tanto post punk, tipo Idles, Fontaines D.C. per esempio, anche se secondo me questo è un genere destinato a passare perché già oggi sembra aver poco di nuovo da dire. C’è una fiorente scena metal, specialmente tra i musicisti indipendenti. Poi c’è il folk, e si trovano esperienze diverse tipo gli Scratch che fanno una specie di metal acustico. È un ambiente nel quale anche un musicista fuori dagli schemi può riempire i locali. Il rock che faccio io (Alt/Stoner, ndr) si ascolta un po’ di più in Gran Bretagna.»

Quando nasce il progetto The Last Vinci?

«Nasce nel 2014, all’epoca ero già in Irlanda. In quel momento sentivo l’esigenza di affrancarmi dalle esperienze precedenti e la necessità di proporre testi in inglese. Il primo disco è tuttavia stato registrato in Italia viste le conoscenze e le esperienze già consolidate. Subito dopo la pubblicazione del disco parte un tour europeo che va molto bene ed alla fine del quale si comincia a lavorare su nuovi brani.

Nel frattempo, però stavo lavorando anche con un’altra band, gli Order of the mess, che andava molto bene ed aveva un buon successo. In quegli anni diventavo anche manager di altre band e queste attività assorbono tempo ed energie. La band che supportava il progetto The Last Vinci si scioglie e quindi bisogna ripartire. È in questo momento che mi raggiunge il batterista, e con un nuovo bassista ripartiamo con un tour in Irlanda e Inghilterra. Durante la pandemia per finanziare la produzione del nuovo disco ci viene l’idea di coinvolgere la fanbase che ci sostiene in modo molto generoso. Raccogliamo quindi i soldi per le registrazioni e partiamo per un tour fittissimo di concerti in tutta Europa.»

Sono trascorsi parecchi anni tra il primo disco ed il secondo. La vostra fanbase è cambiata o vi ricordava?

«È cambiata e parecchio ma alcuni mi hanno seguito nel mio peregrinare da una band all’altra e comunque ha continuato ad allargarsi al punto che abbiamo avuto un forte sostegno anche economico da parte loro quando lo abbiamo chiesto. Io peraltro scrivo principalmente per me più che per chi ascolta, quindi nel tempo ho perso alcuni fan per guadagnarne altri, al variare del mio modo di suonare.»

Ci parli un po’ del disco. Qual è il messaggio che desidera trasmettere?

«Il disco ha nel titolo il suo messaggio principale. “The revolution is made together” è quasi una dichiarazione di intenti, un manifesto. Il disco parla del rapporto tra le persone. È insieme con le persone che si affrontano e si superano le difficoltà e si affrontano le paure. Nell’ultima traccia, “The only revolution is being together” questo concetto viene esplicitato bene. L’amore deve essere alimentato, è una bugia credere che siamo più felici sostituendo una cosa invece che aggiustandola. Siamo fragili, basta un virus, lo abbiamo visto, per cancellare tanto di ciò che abbiamo costruito, insieme agli altri si può rinascere.

Dal punto di vista musicale il disco segue i testi ma è influenzato dalle sonorità irlandesi che oramai sono parte di me. Anche l’esperienza come manager è importante in questo senso perché impone di ascoltare molta musica di altri. Questo ha un impatto sulla scrittura e sento che mi ha migliorato.»

Vuole parlarci dei progetti futuri? Avete in programma date in Italia?

«Il tour si è concluso il 2 dicembre a Torino, la mia città d’origine. Durante il periodo dei concerti abbiamo anche lavorato su tanto materiale nuovo che ora useremo per nuove produzioni. Abbiamo un breve tour già fissato per maggio e un festival importante in autunno. In Italia torneremo sicuramente e presto, ci stiamo lavorando, anche se non abbiamo ancora date definite.»

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