“Democrazie illiberali”: una crescita che preoccupa
Nel frattempo nel Rojava curdo la prima rivoluzione del nuovo secolo appare più in bilico che mai.

Nel frattempo nel Rojava curdo la prima rivoluzione del nuovo secolo appare più in bilico che mai.
Uno spettro si aggira per il Mediterraneo del XXI secolo. È lo spettro della democrazia illiberale. L’espressione, che avrebbe avuto uno strepitoso successo nei due decenni successivi, fu resa celebre da Fared Zakaria in un fortunato saggio apparso nel 1997 nella rivista di politica da lui diretta Foreign Affairs, che aveva per titolo appunto The Rise of Illiberal Democracy. Una vittoria schiacciante, quella del partito conservatore di Kyriakos Mitsotakis nelle elezioni parlamentari di ieri in Grecia. Tuttavia, è chiaro che Mitsotakis non raggiunge il suo obiettivo di una maggioranza assoluta dei seggi nel nuovo Parlamento e dunque porterà il Paese di nuovo alle urne entro luglio per consolidare il risultato. Esulta anche Giorgia Meloni mentre un vento liberal conservatore, come il Meltemi in Grecia, si sta alzando anche in Spagna.
Le elezioni amministrative del 28 maggio hanno causato un vero e proprio terremoto politico in Spagna. Non solo perché la destra ha vinto a mani basse, ma anche perché a sorpresa il premier socialista Pedro Sánchez ha convocato elezioni anticipate per il prossimo 23 luglio. In meno di 24 ore il presidente del governo di coalizione formato dai socialisti e dalla sinistra di Unidas e Podemos ha tratto le conseguenze politiche del voto: ha deciso così di anticipare le elezioni legislative previste inizialmente a dicembre, mettendo fine in modo precipitoso alla legislatura. Sembra che la risposta della politica in questo spicchio di XXI secolo ai rinnovati focolai di guerra basati sul concetto di etnia, che sia russa, turca o siriana, e che riemergono dall’ombra, rinnovano atrocità che parevano dimenticate in un passato remoto, sia la rivendicazione violenta.
Inascoltate appaiono le invocazioni di “pace in un mondo che vede crescere divisioni e guerre” che Papa Francesco ha voluto dare al consueto discorso di inizio anno rivolto al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
All’indomani della vittoria di Erdogan il sultano turco prende atto di un paese diviso. Ma la sua leadership è ben salda visto il ruolo chiave della Turchia nella Nato. Recep Tayyip Erdogan è riconfermato presidente della Repubblica di Turchia, dopo già vent’anni di potere con il 52% al ballottaggio.
L’ampio fronte di opposizione guidato da Kemal Kilicdaroglu non ha prevalso fermandosi al 47,9%. Ricomincia dunque immediatamente la sua azione militare nei confronti dei Curdi e in particolare contro la loro Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria (AANES). La risposta dell’Occidente ha qui come in altri contesti messo in luce i suoi doppi standard e le sue reazioni incoerenti di fronte a molte altre violazioni della Carta delle Nazioni Unite.
Questo ha, a sua volta, alimentato ulteriormente instabilità e impunità. Nel 2023 ricorre il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, un documento nato dalle ceneri di una guerra mondiale. “Non aspettiamo che il mondo bruci ancora una volta per vivere davvero secondo le libertà e i princìpi che abbiamo conquistato al prezzo di milioni di vite” dice il rapporto di Amnesty international. “È facile sentirsi privi di speranza di fronte alle atrocità e alla violenza ma, per tutta la durata dello scorso anno, la gente ha mostrato di non essere priva di potere. Abbiamo assistito ad azioni iconiche di sfida, dalle donne afgane che sono scese in strada per protestare contro il dominio talebano alle donne iraniane che si sono tolte il velo in luoghi pubblici o che si sono tagliate i capelli per protestare contro l’obbligo di indossare il velo. Milioni di persone che sono state sistematicamente oppresse dal patriarcato e dal razzismo hanno manifestato per un futuro migliore. Questo dovrebbe ricordare a coloro che detengono il potere che non staremo mai meramente a guardare quando assalteranno la nostra dignità, la nostra uguaglianza e la nostra libertà”, conclude Callamard di Amnesty International.
Lo sanno bene i Curdi. La loro Amministrazione autonoma della Siria del nord e dell’est nata all’indomani della sconfitta dell’ISIS, è da alcuni giorni sotto intenso e crescente attacco dell’artiglieria e dei droni turchi, con aerei da guerra che sorvolano costantemente l’area.
Dalla rielezione del presidente della Repubblica di Turchia Erdogan, e la conferma del governo Akp-Mhp, si assiste a un’escalation negli attacchi contro il Rojava, ma anche sulle montagne del Kurdistan iracheno, contro la guerriglia del movimento di liberazione curdo. Tutto questo mentre Il regime di Hafiz al-Assad vedeva Öcalan e il Pkk come una pedina utile nello scontro con la Turchia, dalla quale si sentiva minacciato a causa del Gap – Progetto del Sud Est anatolico. Ove concluso, questo progetto di sviluppo delle regioni curde del Sud Est anatolico, che era sul tavolo già dalla fine degli anni Settanta e che fu lanciato all’inizio degli anni Ottanta, includerà ventidue dighe e diciannove impianti idroelettrici sul Tigri e sull’Eufrate, fiumi che scorrono verso la Siria e l’Iraq.
Questo progetto darebbe alla Turchia il pieno controllo delle più importanti risorse idriche del Medio Oriente. Le vicende di questi giorni vanno seguite con attenzione anche perché il prossimo 24 luglio ricorrerà il centenario dei Trattati di Losanna del 1923 i quali, al termine del conflitto tra la neonata Repubblica di Turchia e la Grecia subito dopo la Prima guerra mondiale e il crollo dell’Impero Ottomano, hanno di fatto definito i confini odierni dello Stato turco. Confini che, però, non corrispondono all’idea di “Grande Turchia” dei nazionalisti turchi. Un’idea condivisa e rivendicata dal regime di Ankara e dai partiti che lo guidano, l’Akp di Erdogan e i Lupi grigi dell’Mhp.
Esiste una nazione curda, ed esiste uno spazio geografico denominato Kurdistan, diviso tra Turchia, Iran, Siria e Iraq. La porzione più grande, il Kurdistan del Nord, è in Turchia, da sempre oppressiva con i curdi. Il trattato di Losanna del 1923, che definì i nuovi confini dei quattro stati, stabilì che non si sarebbe dovuta creare una nazione curda. I curdi nel Rojava, nel Nord-Est della Siria, ritengono che la soluzione della questione curda possa manifestarsi attraverso l’espansione del modello di democrazia radicale che stanno implementando ormai da otto anni, e attraverso il quale oggi amministrano un terzo del territorio siriano.
Tutto questo mentre crescono i timori d’escalation nel Mediterraneo denunciati dalla nostra marina che, tuttavia, ha anche effettuato esercitazioni congiunte con quella turca. Uno scontro epico tra globalizzazione e un risuscitato nazionalismo sta trasformando le identità e i conflitti politici in tutto il mondo. Tra il 21 e il 28 maggio 2023 una delegazione di CasaPound ha fatto visita a Damasco, la capitale della Siria. Non è la prima volta che il movimento neofascista italiano mostra la sua vicinanza al regime di Bashar al-Assad, ma questa visita avviene in un processo di normalizzazione del dittatore siriano.
Nel frattempo le massicce violazioni dei diritti umani e i conflitti nel paese continuano. “CasaPound ha pochissima rilevanza in Italia e ormai da partito è stato derubricato a movimento, ma è riuscito a entrare in contatto con le alte sfere di uno stato sovrano. Questo è un dato sintomatico e preoccupante”, commenta Mauro Primavera, ricercatore della Fondazione internazionale Oasis e cultore della materia in geopolitica all’Università cattolica di Milano. In effetti, le numerose foto su Twitter e i comunicati del movimento mostrano il presidente di CasaPound Gianluca Iannone insieme ai ministri siriani della Cultura, del Turismo, dell’Educazione e dell’Informazione, nonché con la consigliera personale del presidente Assad, Buthaina Shabaan. E poi in visita alla biblioteca nazionale di Damasco con i rappresentanti del partito governativo Ba’th e in televisione a un talk-show.
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