Si parte. A poco meno di cinque anni dall’esplosione dello scandalo, il prossimo 21 ottobre presso il Tribunale di Vicenza prenderà il via il “Maxi Processo Pfas” sull’inquinamento dell’acqua che ha interessato mezza regione.

     

È brutto il termine Maxi Processo. Ti riporta agli anni ’90, a Cosa Nostra e Tangentopoli. Puzza di grandi titoli sui giornali, segreti taciuti e questioni poi rimaste in parte irrisolte. Eppure è difficile trovare un’altra parola per descrivere un procedimento che interessa la salute di decine di migliaia di cittadini. Che è arrivato a coinvolgere numerosi comuni dell’est e della bassa veronese. Da Arcole a Cologna Veneta, passando per Zimella, Roveredo e Pressana, giù fino a Legnago. Tutti in zona rossa, la più colpita, ai quali si aggiunge San Bonifacio, con due frazioni (Lobia e Locara) inserite in zona arancione.
Decine di migliaia di persone di tutte le età che, nel corso degli ultimi anni, si sono sottoposte ad analisi e test. Hanno familiarizzato con termini difficili, sostanze perfluoroalchiliche, e chi le aveva mai sentite prima. Ragazzi e anziani delle provincie di Vicenza, Padova e Verona che hanno scoperto la differenza che passa tra PFAS, PFOA e PFOS, ritrovandosele tutte le sangue. Lo screening non mente.
Ipercolesterolemia, ipertensione in gravidanza e pre-eclampsia, malattie della tiroide, colite ulcerosa, tumore del rene e tumore del testicolo. Oltre a patologie cardiovascolari ed aumento della mortalità per le medesime cause. Questi i rischi derivanti dalla presenza di certe sostanze nell’organismo umano.

Il processo che si aprirà tra qualche giorno vede alla sbarra dieci imputati. Tutti manager e dirigenti collegati alla Miteni, l’azienda chimica di Trissino (VI) accusata di aver sversato o rilasciato sostanze perfluoroalchiliche nelle acque di falda, al suolo o nel sistema fognario, determinando l’inquinamento delle risorse idriche. Un’onda nera partita dall’ovest vicentino e arrivata fin nelle acque delle provincie limitrofe. Dal 1977 al 2014, trentasette anni.
I manager tedesco-lussemburghesi Patrick Hendrik Schnitzer, Achim Georg Hannes Riemann e Alexander Nicolaas Smit, l’irlandese Brian Anthony Mc Glynn, gli italianissimi Luigi Guarracino, Mario Fabris, Davide Drusian, Mauro Cognolato,  e Mario Mistrorigo, oltre al dirigente giapponese Maki Hosoda, dovranno rispondere delle accuse di avvelenamento delle acque di uso pubblico e disastro ambientale.

Quello contenuto nel maxi fascicolo arrivato in Procura, però, non è  solo un procedimento contro singole persone. È un processo al sistema. Significa scavare tra le radici di territori devoti al capannone e alla produzione, già colpiti dagli scandali Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Dove comitati e associazioni chiedono a gran voce la giuria popolare e si muovono accuse incrociate alla Provincia di Vicenza (oggi costituitasi parte civile) per aver taciuto sull’inquinamento delle acque. Nonostante i dati fossero in suo possesso già dal 2009.
Un cammino verso l’accertamento della verità accompagnato pure dai timori per una possibile paralisi dei processi ordinari. Oggi infatti la sezione penale del tribunale di Vicenza conta su un presidente e nove giudici. Tre sono assegnati in via esclusiva al processo Banca Popolare. Uno è stato recentemente trasferito e un’altra resterà a casa in maternità. In caso di rinvio a giudizio degli imputati Miteni, altri due giudici (con quelli popolari, visto che si tratta di reati da Corte d’Assise) saranno assegnati al processo PFAS. Ne restano tre, di cui uno a servizio parziale. Chiaro che gli altri processi ordinari rischiano di finire in coda.

Ministero dell’Ambiente, Regione Veneto, comitati, Legambiente e società come Acque Veronesi si sono tutti costituiti come parte civile. A loro si sono uniti decine di Comuni interessati. Tutti quelli in zona rossa e alcuni di quelle arancione. Non tanto perché ci sia la speranza di un possibile risarcimento, come spiegano i sindaci interessati, quanto piuttosto per un dovere morale verso i propri cittadini. La Miteni, infatti, è stata dichiarata fallita nel 2018 . Lo scorso giugno, con poco più di 4 milioni e 630mila euro, la società indiana Viva Life Sciences Private Limited si è aggiudicata macchinari e brevetti presenti nell’industria di Trissino, ed entro un anno e mezzo dovrà portare via tutto.
Lunedì 21 ottobre si comincia, la prima l’udienza preliminare (nel procedimento contro il crac BpVi ce ne vollero 18 prima di arrivare al rinvio a giudizio) di un processo destinato comunque sia a far discutere. E non potrebbe essere altrimenti in una società che oggi condivide sui social le foto degli orsi polari affamati o i meme contro Greta Thunberg, mentre il veleno, quello vero, ce l’aveva nell’acqua della doccia. O della pastasciutta.