Si chiamava Vučko ed era un simpatico lupacchiotto, abituale frequentatore dei boschi della Alpi Dinariche nei Balcani. Tratto dal fumetto del disegnatore croato Nedeljko Dragić, fu realizzato dall’artista sloveno Jože Trobec e divenne la mascotte ufficiale dei giochi del 1984 a Sarajevo, le prime olimpiadi invernali in un Paese comunista. Allegro e amico dell’uomo, proprio come la città di Sarajevo, storico incrocio di culture, etnie e religioni.

Il generale Tito

«Le più belle olimpiadi di sempre» le definì l’allora presidente del Cio Juan Antonio Samaranch. Un successo tra due edizioni delle olimpiadi, Mosca 1980 e Los Angeles 1984, segnate dai boicottaggi impartiti dalla Guerra Fredda. A Sarajevo andarono invece tutti, senza remore. E fu una festa. Fu anche l’ultimo desiderio esaudito di Tito, scomparso quattro anni prima, e l’ultimo atto di quel mosaico che era la Jugoslavia.

«Sei Stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti: un solo Tito» recitava la filastrocca: senza la sua guida, per carisma l’unica personalità in grado di tenerne insieme i pezzi, nel giro di pochi anni il mosaico andò in fiamme, ridotto in cenere da un fuoco sul quale da tempo soffiavano i satrapi locali. Bruciavano i luoghi simbolo dell’olimpiade del 1984, nella folle idea di cancellare il passato, la città fu stretta nella morsa di una guerra sporca e feroce. Vučko trovò rifugio rintanandosi nei suoi boschi, ora era venuto il tempo dei lupi mannari.

Dal 1991 al 1996, con Sarajevo sotto assedio per oltre 1400 giorni città simbolo sacrificale della follia dei nazionalismi più biechi, in Bosnia i licantropi in divisa hanno fatto 300.000 morti e feriti, 40.000 dei quali bambini; hanno stuprato 50.000 donne e massacrato i loro mariti e figli maschi in una spietata operazione di pulizia etnica, hanno lasciato senza un tetto 300.000 persone e creato un milione e duecentomila rifugiati. Un genocidio.

L’Europa si è vista sbattersi in faccia orrori che pensava di essersi messa per sempre alle spalle. Trent’anni dopo, quegli stessi orrori li vediamo nelle steppe più a est, nella guerra scatenata da Putin in Ucraina. Le Sarajevo di oggi portano i nomi, di Irpin, Bucha, Borodyanka, Moschun, Mariupol, Bakhmut: perché la follia umana potrà anche cambiare la geografia, ma non la sostanza. Inequivocabile segno che quanto accadde trent’anni fa nei Balcani non ha purtroppo insegnato nulla.

Ridisegnata dagli Accordi di Dayton del 1996, la Bosnia-Erzegovina è oggi uno Stato diviso in due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (51% del territorio dove vivono Croati e Bosgnacchi) e la Repubblica Serba di Bosnia (49%): di fatto, due separati in casa sotto l’egida di un forzato matrimonio di convenienza. La presidenza è un triumvirato composto da un rappresentante per ciascuna etnia: un bosgnacco, un croato e un serbo. Ciascun membro assume a rotazione la carica di presidente per un periodo di otto mesi.

Tutto in Bosnia è moltiplicato per tre, dalle cariche pubbliche fino alle federazioni sportive: con tante poltrone disponibili a far gola alla politica, non sorprende quindi che la corruzione sia una delle piaghe che affliggono il Paese. Istituita dagli Accordi di Dayton, la più alta autorità civile è la figura dell’Alto Rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, a cui spettano compiti di controllo, monitoraggio e supervisione dell’implementazione delle condizioni previste dagli accordi di pace.

Christian Schmidt

L’attuale Alto Commissario è il tedesco Christian Schmidt. Gli Accordi di Dayton sono del 1996, avrebbero dovuto essere transitori e condurre a una stabilizzazione, ma dopo ventisette anni rimangono tuttora l’equilibrio, non certo saldissimo, sul quale il Paese si regge. Se le cose stanno così, lo dobbiamo soprattutto alla parte serba che sotto la cenere il fuoco nazionalista e separatista lo cova ancora e tra una provocazione e l’altra non fa nulla per nasconderlo. Ergo, la transizione va a rilento e lo stallo permane. L’unica soluzione al cubo di Rubik, la offre l’entrata della Bosnia nell’Unione Europea: la candidatura è ufficiale, e l’Italia è tra Paesi europei che più spingono in quella direzione, ma per implementarla servono tempo e volontà da parte di tutti.

Con un’economia che zoppica mordendosi la coda nella corruzione e in un Paese diviso dal quale i giovani fuggono perché non vedono futuro, un percorso tutt’altro che agevole. Per accelerarne il processo, va detto come l’Italia si stia impegnando in un’intensa attività diplomatica per favorire l’integrazione tra le diverse comunità. In tutti i campi, anche nello sport come abbiamo potuto constatare coi nostri occhi la scorsa settimana sulle montagne olimpiche di Bjelasnica, in Federazione di Bosnia-Erzegovina, e Jahorina, oggi in Repubblica Serba di Bosnia.

Impianti di risalita di ultima generazione made in Italy, piste bellissime, preparate e tenute in condizioni perfette: così, dal 27 febbraio a 2 marzo scorso, le nevi copiose di Bjelasnica hanno ospitato la terza edizione di Telemach Children Speed Camp, tre giorni di sci con allenamenti in pista, gara finale, e didattica in aula riservati a una sessantina di ragazzi di categoria under 14 e under 16 provenienti da diverse nazioni, persino dall’Argentina.

Kristian Ghedina

Docenti ex grandi campioni dello sci alpino come il croato Ivica Kostelic, per il terzo anno consecutivo a Bjelasnica, e il nostro Kristian Ghedina, che su questi nevi era stato una sola volta, nel gennaio del 1988 quando giovanissimo disputò una discesa libera di Coppa Europa. Regina della manifestazione, Paola Magoni che a soli 19 anni nel 1984 ai giochi di Sarajevo nella nebbia di Jahorina vinse l’oro nello slalom, prima donna italiana a regalare al nostro Paese una medaglia d’oro olimpica nello sci alpino: «Paola, this is your mountain!», così l’ha accolta il direttore della stazione sciistica di Jahorina, Dejan Ljevanić, in un clima di festa tutta per lei.

«Tornare qui è stata una grandissima emozione, mi hanno riservato un’accoglienza incredibile. Non me l’aspettavo. Nemmeno in Italia hanno fatto qualcosa del genere per me. Sono state giornate bellissime nelle quali ho potuto apprezzare il calore umano di un popolo allegro e gioioso che ha voglia di vivere e stare insieme» ha dichiarato con gli occhi lucidi la nostra Paoletta.

Lo Speed Camp è stato organizzato dal direttore della stazione sciistica ZOI’84 Olimpijski Centar Sarajevo, Jasmin Mehić, e dal presidente dello Ski Kluba Olimpic, Edin Durić, e promosso dalla città di Sarajevo, nonché da una nutrita schiera di sponsor; quest’anno, proprio per la presenza di due nostri campioni come Paola Magoni e Kristian Ghedina (sono stati premiati entrambi dalla sindaca di Sarajevo Benjamina Karić in occasione della visita ufficiale al Museo Olimpico, alla presenza dell’Alto Rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina Christian Schmidt – a proposito, un museo olimpico a Cortina lo vogliamo fare?), ha goduto anche del supporto dell’Ambasciata d’Italia: «Sarajevo è un’anima aperta e poliedrica, con una tradizione di tolleranza e convivenza multiculturale e religiosa.

È incredibile come nel giro di pochi anni si sia passati da un simbolo di pace e concordia come le olimpiadi a una guerra atroce e assurda. La ferita è aperta, una narrazione condivisa della guerra ancora non c’è. Sostenere iniziative come questa significa spingere verso un futuro multiculturale ed europeo della Bosnia. È stato bellissimo vedere l’affetto che la gente di Sarajevo ha riservato a Paola Magoni e Kristian Ghedina. Una dimostrazione di empatia, tipica di questo popolo» ha commentato l’ambasciatore italiano Marco Di Ruzza.

Sono stati giorni all’insegna dei ritorni; a sciare a Sarajevo è tornata infatti anche Ariana Boras, tre partecipazioni alle olimpiadi tra il 1992 e 1998 (la prima nel 1992 ad Albertville sotto la bandiera della Jugoslavia, le altre due, 1994 a Lillehammer e 1998 a Nagano, per la Bosnia-Erzegovina), riparata durante la guerra a Bormio, dove tuttora vive. Lo sport le ha permesso di fuggire dall’orrore della guerra e rifarsi un vita nel nostro Paese. Bella storia.

Quest’anno a Bjelasnica è tornata pure Coppa Europa di sci; mancava dal 1989 ed è un grande passo in avanti, ma il vero obiettivo è poter tornare ad ospitare una gara di coppa del mondo e si lavora per questo. Riportare il Circo Bianco su queste montagne, crediamo sia un dovere morale da parte della Federazione Internazionale, ma anche del Cio, quale atto simbolico che lo sport può e deve dare: del resto, «Lo spirito olimpico è un grande distruttore di muri» lo diceva il barone De Coubertin, no? «La coppa del mondo è il nostro sogno e lavoriamo per realizzarlo. Sappiamo che è difficile, ma ci crediamo» spiega Jelena Dojcinovic, segretario generale della federazione sport invernali bosniaca e membro del comitato olimpico della Bosnia-Erzegovina.

Vučko

Ora gli unici cannoni in funzione sparano la neve: un simbolo della rinascita. E poi c’è Vučko…Dopo che i licantropi sono finiti in gabbia e lì resteranno a pagare le atrocità di cui si son macchiati fino alla fine dei loro giorni, è tornato anche lui: il suo sorriso ha riportato allegria e spirito di amicizia, esattamente come fece in quel lontano 1984.

Il prossimo anno Vučko e i suoi cinque cerchi compiranno quarant’anni e già si pensa a come celebrarli: «Potrebbe essere una gara con le Ski Legends, i grandi campioni del passato» ci confida il presidente dello Ski Kluba Olimpic, Edin Durić. Presa per la gola per quattro anni, Sarajevo ha pianto i suoi figli e sofferto l’inferno; mai più odio, mai più violenza, è oggi una città che ha ripreso a respirare e ha solo tanta voglia di vivere. Non resta che congedarci con le parole dell’artista sarajevese Edin Numankadić, per anni storico direttore, ora in pensione, del Museo Olimpico, qui considerato un eroe per averlo salvato dalle granate serbe: «Sarajevo è ricordata solo per brutte cose. Ma è una città olimpica, e l’Olimpiade del 1984 fu bellissima». Arrivederci al 2024.  

Paola Magoni

Tutte le foto sono di Lorenzo Fabiano

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