Vecomp Academy, progetto di Massimo Sbardelaro, amministratore dell’omonima azienda veronese, ospita una serie di incontri legati al Festival della Cultura d’Impresa “OPEN 22|23”, che vogliono sviluppare il concetto di emergenza in diversi ambiti. La scorsa settimana si è parlato di comunicazione con la sociolinguista Vera Gheno, autrice di numerosi libri sul linguaggio, docente universitaria e già consulente dell’Accademia della Crusca.

Ammaliare con le parole

Vera Gheno, ospite di Vecomp, ha presentato il suo ultimo libro Chiamami così – Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo, per Il Margine.

Gheno ricorda di aver scoperto la capacità di affascinare con le parole in una fase in cui era a disagio con se stessa. Non si sentiva “gnocca” come le sue amiche, ma si è resa conto che attraverso le parole poteva arrivare in altro modo ad avere le relazioni desiderate. «Ho capito che si può incantare con le parole – ha dichiarato Gheno – e c’è un momento in cui come sei diventa secondario a quello che stai dicendo».

L’intervento ha poi toccato la sorte di quelle parole utilizzate in modo sbagliato e perciò rovinate, destino inesorabile della “lingua di plastica” di cui narra la linguista Ornella Castellani Pollidori. Capita alle parole del momento, quelle che vanno infilate per forza ovunque sennò il testo non è cool. Passano dalla fase di esaltazione al fastidio. «Resilienza era una parola bella, ma ormai è invisa a tutti. Tutto passa da una grande responsabilità nell’uso: tentiamo di usarle bene, preserviamo il significato e il valore delle parole», ha sottolineato la relatrice.

Povertà o ricchezza?

Sullo stato di salute della lingua italiana e sui social media, Gheno ha dichiarato che questi ultimi hanno dato la possibilità di esprimersi a molte persone che prima non l’avevano, ma sottolineano una carenza non tanto nella lingua quanto negli italiani.

«Non penso che il linguaggio si stia impoverendo. Si sta evolvendo, anche in modo veloce, è studiato all’estero, si arricchisce come una spugna di influenze internazionali, si mantiene vivo. Fino agli anni Sessanta l’italiano era una lingua letteraria, la gente non lo parlava. Essere lingua del volgo è in sé un’assoluta novità».

La riflessione secondo Gheno è piuttosto da fare sulla cultura media degli italiani. «Il contesto in cui viviamo, rispetto alla dimensione di vita semplice, in ambienti ristretti sia a livello fisico che esperienziale, richiede maggior conoscenza, più approfondimento e il saper riconoscere la complessità.

Una voragine tra generazioni

La grande sfida dei prossimi decenni sarà capire come e che cosa insegnare, di quali strumenti avremo bisogno per cercare di adattarci. Ad esempio, nell’ambito dei nuovi media noi adulti non sappiamo cosa insegnare ai giovani: a riprova vediamo che il 99% dell’educazione digitale nelle scuole si riduce a cyberbullismo, discorso d’odio e pornografia. Temi importanti, ma dobbiamo proporre corsi per un uso corretto, invece che limitarci a dire di non fare le cose sbagliate».

E sui giovani e l’uso della lingua, Gheno ha sottolineato che «c’è un grandissimo inganno che abbiano meno parole di noi. I ragazzi hanno tante parole, ma in posti molto diversi da noi. Se li misuriamo sulle nostre, troviamo una grande povertà. Ma è la stessa che trovano loro misurando noi. Altro che gap, parliamo di una voragine tra generazioni.»

Vera Gheno durante l’incontro ad Open – Festival della comunicazione d’impresa.

Linguaggio che si apre al nuovo

La sociolinguista si è soffermata a lungo sulla nostra istintiva renitenza al cambiamento, citando l’evoluzionista Telmo Pievani e l’uomo “programmato per temere la diversità, lo xenos”. A determinarla il riflesso innato, l’attimo in cui proviamo paura di una novità, quel terzo di secondo dopo il quale possiamo decidere se stare nella paura o aprirci all’altro. «È più semplice fermarsi alla reazione istintiva. Ma ciò toglie la possibilità di fare esperienze solo per un picco di fastidio iniziale. È importante riconoscere in sé questa emozione e tentare di superarla.»

E ciò vale anche con il linguaggio, con le sue continue capriole evolutive, sempre più rapide e invasive, con le commistioni con le lingue straniere, in un approccio poco convenzionale, almeno per quello che ci si aspetterebbe da una linguista della Crusca.

«Mi piace molto il lessico che sottolinea l’impronta patriarcale sulla società, ma in tono scherzoso e ironico, tipo mansplaining. Ho scoperto che in italiano diventa minchiarimento e lo trovo fenomenale. Amo in questo la facilità dell’inglese di creare parole macedonia, come manel per indicare un panel tutto maschile. Amo le parole dei ragazzi, la loro creatività, perfino il “cörsivoe”. Sono molto più progressista di mia figlia in questo.»

Star bene nella comunicazione

Sull’importanza di arrivare agli interlocutori, Vera Gheno non ha dubbi. Anche se questo significa cambiare il livello comunicativo. Esempio classico la differenza tra lo stile in uso fra colleghi, che spesso sfiora il gergo iniziatico, e quello verso l’esterno, che non può prescindere dall’azione di “ascolto”, di voler capire chi è la persona a cui ci si rivolge.

«Ci vuole attenzione a tre coordinate: le intenzioni, cioè cosa vuoi fare delle parole; il contesto, ovvero pubblico-privato-social, di persona-online-telefono. E infine chi sono gli interlocutori, per provare a tararti sulla loro lunghezza d’onda – ha precisato la sociolinguista -. Arroccarsi su un lessico tecnico e specialistico è l’equivalente di dire guarda quanto sono bravo io. A volte è involontario, altre è una questione identitaria, che ti fa sentire importante e “studiato”. Tengo sempre a mente una perla del grande linguista Tullio De Mauro che mi disse: “non devi mai pensare al lettore ideale ma al lettore più sfigato”. Disse proprio così. Se si considera chi ha meno strumenti ermeneutici e cognitivi, anche tutti gli altri capiranno».

E non si tratta di svilire o banalizzare il linguaggio, un equivoco di molti a proposito della semplificazione. «Semplificare è spiegare, chiosare e contenersi rispetto all’automatismo linguistico del barocchismo. La complicazione è nel nostro sangue ma abbiamo grandi esempi di testi complessi come contenuto, resi in maniera davvero comprensibile. Italo Calvino ne è un esempio. Rivedere lo scritto infinite volte, in modo da arrivare se non alla soddisfazione, almeno alla “sopportabilità del testo”. Se lo faceva lui, possiamo provare tutti.»

Vera Gheno ha presentato il suo ultimo libro Chiamami cosìNormalità, diversità e tutte le parole nel mezzo edito da Il Margine, 2022.

Il linguaggio ampio

Sul tema dell’inclusività, Gheno ha quindi affermato che «non lo chiamo neanche più linguaggio inclusivo, perché quel termine presuppone l’esistenza di due parti: una, ciò che è “normale”, che include e un’altra, ciò che è “diverso”, che viene incluso. Se non si è oggetto di discriminazioni si può anche credere che inclusione sia un afflato sufficiente, ed è sicuramente meglio di lemmi precedenti, come integrazione o tolleranza. Ma voglio superare la dicotomia normale/diverso per accogliere la definizione di Fabrizio Acanfora, la sua “convivenza delle differenze”.

E allora adesso lo chiamo linguaggio ampio, che cerca di capire le esigenze di tutte le persone parlando con loro. Ad esempio, un tempo le lesbiche erano chiamate trìbadi, per la posizione in cui si pensava facessero l’amore, uno strusciamento a incastro. E invece bastava chiedere a loro per sapere che non è così per definizione. Il linguaggio ampio si propone di fare le domande, di rinunciare alle etichette e riconoscere il potere dell’autodeterminazione

Non c’è curiosità senza ascolto

Anche chi comunica secondo Gheno può soffrire di immaturità cognitiva. «Alla prova dei fatti, siamo poco maturi nell’adattamento alle nuove condizioni comunicative. Ma invece di concentrarci sulla performance, cioè sul comunicare bene, proviamo a pensare di stare bene nella comunicazione. Anche nella comunicazione professionale meritiamo di cercare la felicità. Pratichiamo l’ascolto: del mercato, di chi abbiamo intorno, del cambiamento. In questo modo si può trasformare il nostro innato misoneismo, la paura del nuovo, in un’attitudine curiosa. Lo so, sembra una frase alla Steve Jobs. Ma la curiosità è davvero importante, ti permette di fare lo scarto da “oh, che schifo” a “wow, potrebbe pure piacermi!”»

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