Carlo Petrini è tra le persone più influenti al mondo nella difesa della Terra. Lo dimostrano i tanti attestati che ha ricevuto in molti anni di attività, tra i quali ricordiamo quello del 2008 quando The Guardian, quotidiano inglese, lo inserì tra le 50 persone che «potrebbero salvare il pianeta». Sua è anche la prefazione all’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco.

Al grande pubblico è conosciuto soprattutto come il fondatore di Slow Food, associazione oggi diffusa in 150 Paesi del mondo impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali.

Lo abbiamo incontrato per parlare di lotta ai cambiamenti climatici, cibo e agricoltura.

Petrini, il 2022 è stato l’anno più caldo di sempre per l’Italia, ma non sembra una notizia che fa molto rumore in Italia…

«Rispetto ad anni fa, di crisi climatica in realtà se ne parla abbastanza perché gli effetti sono ormai diventati innegabili e disastrosi. Nel 2022, mentre l’Europa viveva l’estate più calda negli ultimi 500 anni e il Marocco la peggior siccità in 40, un terzo del Pakistan è stato completamente sommerso da violenti piogge di carattere alluvionale che hanno causato quasi 2000 morti; e negli Stati Uniti l’uragano Ian si è abbattuto sulle coste del sud della Florida con una violenza mai vista prima, lasciando per giorni due milioni di persone senza elettricità. Più che riflettere sull’ammontare di notizie che trattano l’argomento vorrei invece affrontare l’insufficienza delle misure adottate da chi ci governa. I politici infatti sono soliti prendere decisioni su un orizzonte temporale che guarda al medio-breve termine, questo in ragione del fatto che devono raccogliere il consenso dei cittadini in vista del successivo turno elettorale. La crisi climatica invece da un lato riversa i suoi effetti già nella nostra quotidianità, dall’altro la maggior parte dei risultati delle misure atte a contrastarla potranno essere verificati solo sul lungo termine. Tutto questo genera una tensione di interessi contrastanti che per forza di cosa dovremo trovare al più presto i modi di superare perché altrimenti il nostro destino è segnato.»

Nemmeno i potenti della Terra riunitesi per la Cop27 – la conferenza sul clima dell’Onu che si è tenuta a Sharm el Sheikh, in Egitto, nel novembre scorso – hanno lanciato un segnale forte per mitigare gli effetti dei gas serra…

«Le Cop sono un film già visto che, da trent’anni a questa parte e con cadenza annuale, si ripete in maniera pressoché invariata: per dieci giorni i leader mondiali si incontrano e discutono le azioni per mitigare e adattarsi al cambio climatico e poi prontamente ritornano ciascuno nei propri paesi dimenticandosi quasi totalmente degli impegni presi. Questo perché mitigare gli effetti dei gas serra va ben oltre azioni mirate volte al contenimento delle emissioni. C’è bisogno di un ripensamento strutturale dei nostri modelli economici. Bisogna andare oltre il concetto del pil come misurazione del benessere di una società. A questo proposito purtroppo ancora fatichiamo a renderci conto che è inutile un aumento del pil oggi, se domani non potremo godere di questa crescita perché il mondo sarà invivibile».

Edward Mukiibi, nuovo presidente di Slow Food dal luglio scorso, ha così commentato i risultati della Cop27: «Finanziare i Paesi in via di sviluppo per fronteggiare gli effetti della crisi climatica senza individuare la radice delle cause e le misure per mitigarla non aiuterà nessuno. Darà solo maggiore libertà ai giganti dell’agroindustria di sostenere le loro false soluzioni improntate sul greenwashing»…

«Ovviamente non posso che essere d’accordo con le parole di Mukiibi. E aggiungo: non solo è indispensabile andare alla radice delle cause della crisi climatica, ma bisogna poi anche mettere i Paesi del Sud Globale nelle condizioni di poter avere accesso e poi gestire in prima persona investimenti, tecnologie, risorse e conoscenze. Decenni di assistenzialismo e aiuti a pioggia da parte del ricco Nord Globale non hanno infatti fatto altro che reiterare un modello neo colonialista che non ha saputo intercettare e rispondere alle vere esigenze dei territori».

Possiamo dire che la giustizia climatica è ancora lontana?

«Ahimé sì. Se è vero, infatti, che nessuno è immune agli effetti disastrosi della crisi climatica, è altresì doveroso constatare che non tutti siamo ugualmente equipaggiati per affrontarla. La crisi climatica è infatti stata causata in maggior parte dal ricco mondo occidentale, ma a pagarne maggiormente le conseguenze sono i paesi emergenti del sud globale. Io penso che la giustizia climatica potrà essere raggiunta solo se saremo disposti a rimettere in discussione i tre valori della rivoluzione francese a partire dalla fraternità. Storicamente si è infatti dato peso prima alla libertà, poi all’uguaglianza e infine alla fraternità.

Ma attenzione perché l’eccesso di libertà uccide l’uguaglianza e il liberismo imperante ne è la prova: un eccesso di libertà che privilegia i più ricchi e forti e fa ingiustizia ai più poveri. Istituzionalizzare l’uguaglianza allora può anche voler dire privarsi di parte della libertà e dei privilegi individuali in favore di un bene comune più grande. Tutto questo può però avvenire solo se recuperiamo la fraternità che è l’elemento che consente di realizzare pienamente gli ideali di libertà e uguaglianza in maniera non conflittuale e partecipativa, fornendo così all’umanità la possibilità di scampare al disastro climatico».

Lei sostiene che non si è capito l’importanza del cibo per far fronte ai cambiamenti climatici. In che modo lo è?

«Attualmente oltre il 30 per cento delle emissioni di Co2 sono imputabili al sistema alimentare: non esagero quindi nel dire che corriamo il serio rischio che, se non facciamo nulla per cambiare, i nostri modi di alimentarci finiranno per mangiarsi il pianeta. Se da un lato quindi il sistema alimentare è fautore del cambiamento climatico, dall’altro è forse lo strumento di più facile accesso per favorire un cambiamento in positivo. A partire dalla nostra quotidianità possiamo infatti compiere scelte virtuose e facili da adottare che hanno un minor impatto sull’ambiente. Mi spiego meglio attraverso alcune azioni concrete che ognuno di noi potrebbe impegnarsi a portare avanti: ridurre lo spreco e fare come le nostre nonne quando preparavano piatti come la ribollita o la pasta ripiena con gli avanzi della settimana; praticando quella che oggi definiremmo economia circolare, ci hanno consegnato il meglio della cucina italiana.

Diminuire il consumo di proteine animali e approcciarsi con curiosità, per esempio, alla diversità di legumi presenti in ogni territorio. Smettere di comprare alimenti avvolti in metri di imballaggi plastici quasi fossero mummificati: come le tre fette di prosciutto, dove c’è più plastica che prosciutto. Diminuire il consumo di cibi ultra-processati in favore di ingredienti locali e freschi che fanno riscoprire la bellezza e la diversità che le diverse stagioni ci offrono. Se milioni di persone adottassero questi comportamenti, allora poi anche la politica non potrà più permettersi di rimanere indifferente».

Per concludere, cosa ne pensa del fatto che il governo Meloni ha aggiunto al nome del ministero dell’agricoltura anche “sovranità alimentare”? Non pensa che nel nostro Paese ci sia un po’ di confusione tra sovranità e sovranismo?

Carlo Petrini – Foto di Jennifer Olson

«Io ho accolto la notizia in maniera positiva, questo perché la sovranità alimentare è da decenni alla base del lavoro che Slow Food porta avanti nel mondo e quando se ne conosce il significato profondo, si capisce che non può essere confuso né con sovranismo né con autarchia. Il concetto di sovranità alimentare nasce dai movimenti di base del mondo contadino come contro risposta alla decisione dell’organizzazione mondiale del commercio di assoggettare lo scambio di beni alimentari alle stesse dinamiche neoliberiste applicate a qualsiasi tipo di merce scambiata sul mercato.

Il principio cardine è l’autodeterminazione dei popoli nella scelta delle proprie politiche agricole affinché siano in sintonia con il tessuto ecologico, economico e sociale e garantiscano l’accesso a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato. Se applicata correttamente la sovranità alimentare crea una tensione positiva tra dimensione locale e globale e permette ai popoli di essere davvero liberi nella scelta di ciò che produrre e consumare, mettendo al centro il benessere delle persone e del pianeta. Aggiungo: la sovranità alimentare non vuole essere né un concetto nostalgico e passatista, e nemmeno una chiusura rispetto al mondo esterno, bensì una rivendicazione forte e chiara del valore che ha il cibo in quanto diritto umano, e non in virtù del prezzo che gli viene corrisposto».

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