La stagione sinfonica 2022 al Teatro Filarmonico volge al termine con un concerto tra tardo-romanticismo e innovazione dedicato alla musica di tre grandi compositori russi di fine Ottocento, Stravinsky, Skrjabin e Rimskij-Korsakov. Il decimo concerto sinfonico di quest’anno vede la direzione di orchestra e coro della fondazione di Francesco Ciluffo, interprete di riferimento dell’opera del Novecento, per la prima volta al Filarmonico.

In programma, questa sera alle 20 e domani pomeriggio alle 17, in apertura la “Sinfonia di salmi” di Igor Stravinsky, di cui il coro canterà in latino i salmi 39, 40 e 150, seguito dal concerto per pianoforte e orchestra

A seguire il “Concerto per pianoforte e orchestra in fa diesis” di Aleksandr Skrjabin, e chiusura con Nikolaj Rimiskij- Korsakov e l’ultima delle sue sedici opere per il teatro, la suite dalla fiaba “Il Gallo d’oro”.

Di Skrjabin si ascolterà un lavoro di esordio, scritto quando il compositore aveva solamente diciassette anni: seppur di gusto tardoromantico con influenze da Chopin, contiene già elementi della stagione successiva, sovversiva e visionaria. Al pianoforte ci sarà Edoardo Maria Strabbioli, maestro veronese di nascita e più volte ospite presso i teatri della città.

L’orchestra e il coro della Fondazione Arena, questa sera al Filarmonico per l’ultimo concerto sinfonico del 2022, foto ©Ennevi.

Skrjabin, un compositore a cavallo tra tardo romanticismo e sperimentazione novecentesca. In che senso lo è?

«Quando io facevo il conservatorio, non era neanche nominato. Il Concerto poi è sempre rimasto in ombra un po’ perché è un’opera giovanile, un po’ perché si sentono già tante influenze. La sua produzione, che poi finisce col Prometeo, il poema dell’estasi, è costellata da tutta una serie di visioni. L’ultima sua opera doveva finire con luci stroboscopiche, era veramente molto avanti. Ma in lui e c’è chiaramente una contraddizione tra ciò e un tardo romanticismo. Skrjabin era quasi coevo di Rachmaninov, di cui invidiava le grandi mani, ma poi lui è riuscito a evolversi e a tracciare la sua strada. È un compositore tutto da scoprire, anche le dieci sonate hanno un’evoluzione pazzesca dalle prime con un linguaggio più semplice a uno più visionario. Qui già si sente che è lui».

Qual è la sua lettura di Skrjabin? Ci sono aspetti più necessari di altri per l’esecuzione di questo concerto?

«Questo concerto ha varie edizioni e in ciascuna ci sono indicazioni diverse. Quella che ho seguito io è l’edizione Urtext che è molto interessante perché riporta tantissime indicazioni in francese, tanti stati d’animo, tanti cambi di tempo che in altre edizioni sono totalmente assenti. Facendo un raffronto tra loro stupisce che esistano così tante differenze. Nel secondo tema dell’ultimo tempo troviamo, nella mia edizione ma anche in una vecchia edizione russa l’indicazione “molto meno mosso”, e quando il tema ritorna, è in un’altra tonalità e troviamo scritto solo “meno mosso”. Nella prima invece mette avec enchantament, “con incantamento” e la musica qui sembra quasi un ricordo, una visione onirica. Il suono dovrebbe farla da padrone».

Tra diversi interpreti lei ha dei modelli per la realizzazione di questo repertorio?

«Senza dubbio i grandissimi maestri del passato. Horowitz faceva cose visionarie su Skrjabin e oggi direi Arkadij Volodos».

Skriabjn autore non conosciutissimo, Fabion Bower, che scrisse la sua biografia sostiene che “nessun compositore è stato più denigrato e più amato di lui”. Quanto pensa che vada conosciuto questo compositore?

«Se devo riguardare la mia esperienza è vero, ma non per quanto riguarda l’ultimo periodo. Sono nato nel 1960 e all’epoca non c’erano molte esecuzioni. Ora è diverso. Il Concerto in fa diesis è una delle prime pagine di una grande genio ed è interessante vedere le sue evoluzioni. Anche per Mozart, Beethoven, Chopin già nelle prime scritture troviamo qualcosa che poi esploderà nel grande genio musicale».

Il maestro Edoardo Maria Strabbioli

Qual è il suo rapporto col pubblico veronese?

«Tutti i teatri della mia città sono importanti perché da piccolo andavo a sentire “i grandi”. Ricordo quando vedevo Pollini fare tutti i suoi studi al Teatro Nuovo. Ogni volta ricordo il me ragazzino in coda per gli autografi, sono sempre stato onorato quando è stato il mio turno di suonare sui quei palchi. La prima volta al Nuovo avevo 23 anni, suonavo come solista, lì avevo sentito tutti i maestri».

Riscontra una differenza di approccio rispetto a quegli anni?

«Direi che se parliamo di pubblico, oggi, mettiamo al centro la parola cultura, che ha subito una trasmigrazione. Oggi comprendiamo tutto ciò che quando io ero piccolo era considerato intrattenimento, lo sport, il varietà. Così la cultura ha perso la sua collocazione pubblica.

Questa società ha ridotto i tempi dell’attenzione. Puoi lanciare un’occhiata distratta alla Gioconda e dire “l’ho vista”, mentre per affermare che hai sentito la sinfonia numero 9 di Beethoven, devi metterti sul divano per un’ora e mezza in ascolto. “Thriller” di Michael Jackson durava 6 minuti, ora le canzoni non durano più di 3 minuti. Sulla Gazzetta dello Sport viene indicato il tempo di lettura degli articoli. Come pensa che uno apra la Divina Commedia? È una battaglia di civiltà. Se qualcuno pensa che Beethoven non serva più, che abbia il coraggio di dirlo».

A dettare legge è il dato dell’audience…

«Però se inseguiamo solo l’audience siamo dei perdenti. Ora tocca ai giovani, solo loro possono fare qualcosa di significativo. È una battaglia di civiltà».

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