Ieri, lunedì, abbiamo potuto salutarla. Non è stato un funerale: solo una veglia funebre, in presenza del prete e dei volontari che l’hanno seguita in questi mesi. Dopo la cremazione, Valeryi prenderà l’urna con le ceneri e il relativo pacco di documenti, si metterà in macchina, e affronterà il viaggio di ritorno. Dopo quasi otto mesi in Italia, vuole tornare a Bila Tserkva, nei dintorni di Kyiv, per seppellire la sua Natalia. Hanno vissuto insieme 49 anni, e staccarsi da lei non è possibile.

Valeryi è arrabbiato con me: ancora qualche giorno, e sarà un mese che lei è venuta a mancare, dopo una settimana in coma e mesi di sofferenza.

Lui non mi crede, quando gli spiego che le lungaggini erano dovute ai “tempi tecnici”. Come spiegargli, che ci sono meccanismi in Italia che non accelerano nemmeno di fronte alla morte?

Anche perché è la parte della vita degli ucraini di cui si parla poco in Italia.

Un bisogno più profondo oltre all’emergenza

Mi direte: ma se non si parla d’altro che dei morti in Ucraina? Sappiamo tutto sui loro destini fatti di esumazioni, ritrovamenti, autopsie, sul loro passato e sul loro trapasso. Uno smalto sulle unghie o un braccialetto sul polso diventano simboli universalmente noti che trascendono i limiti del lutto privato per far parte della storia contemporanea.

Certo. Ma quelle sono vittime di guerra. Quel che succede con chi ha espatriato interessa molto meno. È già tanto se ci si ricorda dei loro bisogni primari: vitto, alloggio, documenti e corsi di lingua. Ma ci sono esigenze più profonde, di cui vengono privati.

Una donna ucraina ritratta da People in need, Flickr, tramite EU Civil protection and humanitarian aid, CC BY-ND 2.0.

Ad esempio, il diritto al lutto. Una delle profughe che segue la nostra associazione “Malve di Ucraina” mi ha raccontato di suo padre, venuto a mancare mentre lei era già rifugiata in Italia. Aveva dovuto abbandonarlo perché in quanto disabile non era possibile espatriare insieme. L’unica soluzione era affidarlo ad una struttura dove sarebbe stato assistito.

Per pagare il servizio, lei spendeva tutto quel che guadagnava lavorando come cameriera in un albergo sul lago. Quando l’inevitabile è successo, ha dovuto seguire le esequie su Skype, nella pausa pranzo al lavoro, in lacrime e con il cuore a pezzi. Il suo dolore era rimasto celato, e solo a fine turno ha potuto tornare nel suo alloggio per abbracciare il figlio e trovare la forza per andare avanti.

Il conflitto oscura il diritto alla salute

In questo caso, forse la dipartita era inevitabile. In altri casi viene accelerata perché la guerra ha cancellato le terapie previste, gli interventi chirurgici programmati: vuoi perché l’ospedale è stato bombardato, vuoi perché i medici sono andati volontari sul fronte.

Per fortuna fra le persone con fragilità c’è anche chi si mette in fuga, avendone ancora le forze, e riesce a trovare un approdo sicuro, a sistemare le carte e a continuare quanto pianificato: interventi chirurgici, trapianti del midollo osseo, protesi sofisticate. Il sistema sanitario italiano si prende cura di loro in modo eccellente, ma a volte, purtroppo, non basta. Raggiungere un approdo sicuro non garantisce la sopravvivenza.

Foto di People in need, Flickr, da EU Civil protection and humanitarian aid, CC BY-ND 2.0.

Quando muore un profugo

Ci sono persone giovani e senza patologie che trovano la morte nel momento in cui cala la tensione. A marzo, uno di questi casi è capitato a Roma, quando Natalia, una profuga trentenne, è morta per un malore istantaneo sotto gli occhi dei suoi due figli, appena scesa dal bus dell’evacuazione. Un caso che è salito all’onore delle cronache. Ma poi, che cosa è successo?

Quando viene a mancare un profugo, al trauma della fuga e della perdita si aggiunge il dramma delle esequie. Si sa che non sono mai piacevoli o facili per nessuno, spesso creano dissidi in famiglia e implicano un notevole sforzo economico. Ma nel caso dei profughi nullatenenti, senza reddito, residenza, Isee, in più con l’aggravio del trasporto della salma in un paese in stato di guerra, la situazione è disperata.

Esiste un’opzione per chi non può pagare? Ovvio: il funerale sociale, riservato ai senza nome trovati per strada e non reclamati da nessuno. Loro, dopo un mese di attesa, vengono cremati e buttati in una fossa comune: nessuna cerimonia per salutare, nessuna preghiera, nessuna targhetta per segnalare il luogo dove si decomporranno le loro ceneri, abbracciate a quelle degli altri malcapitati.

La guerra ostacola anche le esequie

Questa è la procedura che avrebbe dovuto essere applicata anche ai profughi. Ma si cerca di evitarla, cercando di organizzare le esequie comunque. A volte si prendono i risparmi del defunto, si interpella la famiglia, gli amici, gli eredi, o si fa una colletta fra altri emigrati. In tempi di pace ci sono diverse opzioni.

In tempi di guerra, no: gli uomini giovani non possono uscire liberamente dal Paese, ampie zone sono occupate e irraggiungibili, le strade sono distrutte, i viaggi pericolosi e in generale si tende a donare ai vivi. La colletta per raccogliere quei 3500 euro che chiedono le pompe funebri per il servizio è possibile, ma richiede tempo. L’ospedale invece, di tempo per il ritiro della salma ne dà giusto un mese.

Come può un vedovo o una vedova, senza conoscere la lingua italiana, capire a chi rivolgersi, compilare le carte, raccogliere la somma necessaria in tempo, gestendo in contemporanea il proprio dolore? E se di familiari non c’è nessuno, o meglio, nessuno che possa occuparsene al momento?

Li buttiamo via?

Foto di Marko Milivojevic.

Dare dignità ai diseredati

Io spero ci possa essere una soluzione. Un funerale sociale meno freddo, meno anonimo, che lasci spazio per la preghiera, per un saluto, se ci sono persone che hanno conosciuto il defunto. Magari, una semplice targhetta con il nome. Non credo possa costare cifre esose. Forse, ci potrebbe essere un fondo comunale d’emergenza che copra le spese. Per gli ucraini, siriani, iraniani, chiunque si trovi in una situazione di massimo disagio possibile: profugo, indigente, solitario, morto.

Ci vorrebbe un miracolo o un gesto di buona volontà da parte delle agenzie funebri? Spero che si possa invece creare a livello municipale una sovvenzione, una procedura speciale, un percorso che possa dare dignità al trapasso dei diseredati. I Regi decreti in materia, che risalgono agli anni Trenta, non possono prevedere le esigenze di oggi. Ma le amministrazioni, invece, possono rendere le procedure sul territorio del proprio comune un po’ più accoglienti.

Nessuno sia straniero nemmeno davanti alla morte

In questo lungo mese di attesa, noi volontarie ucraine abbiamo cercato di percorrere ogni strada possibile. Dopo una serie di rifiuti al solo sentire che si tratta delle esequie di una straniera, abbiamo trovato riscontro grazie alla sensibilità individuale di alcuni rappresentanti delle istituzioni. Un’agenzia ucraina specializzata ci ha dato una  mano coi documenti da fare presso il Consolato, anche se sono oberati di lavoro straordinario.

Numerose volontarie della nostra diaspora si sono attivate per stare vicino al vedovo, un medico italiano di grande cuore ha seguito l’anziana nei suoi ultimi giorni, un prete ortodosso ucraino potrà celebrare la messa.

Ma se fosse morto un profugo afgano, o siriano, o iraniano, che non ha una ambasciata che stia dalla sua parte o una rete d’appoggio fatta da connazionali integrati, chi avrebbe provveduto? Credo che la società civile dovrebbe dare una risposta.

Se nella mia città nessuno è straniero, non lo deve essere nemmeno dopo la morte.

©RIPRODUZIONE RISERVATA