Non conosco così bene Pupi Avati. Non sono un esperto di cinema. Forse conosco un po’ la Commedia. Sicuramente ne sono innamorato. E proprio questo mio amore viene agganciato da un film che, tra luci e ombre, nasce dall’amore del regista per l’Alighieri e rende l’amore indiscusso protagonista.

Pupi Avati fa una scelta precisa e prende come fonti per il suo libro sostanzialmente due testi: la Vita nova di Dante e il Trattatello in laude di Dante del Boccaccio. Naturale che lo svolgimento risenta di questi due modelli. La Vita nova è un’opera tra le più enigmatiche e sfuggenti, il Trattatello è un’agiografia, condito dal gusto per l’aneddoto (oggi diremmo gossip).

E quindi chi cercherà nel film di Avati il Dante della Commedia sarà deluso. Chi cercherà il Dante politico  appassionato riformatore civile, censore e profeta sarà deluso. Ma anche chi cercherà Verona, “primo refugio” e “ostello” del Sommo durante l’esilio, sarà profondamente deluso. Perché di Verona nemmeno l’ombra (e questo dovrebbe un po’ far pensare noi veronesi inesorabilmente giuliettizzati). E deluso anche chi cercherà Firenze o la Toscana in generale. Questo è un Dante umbro-ravennate. Piaccia o non piaccia. Ma Boccaccio scrive un elogio di Ravenna, contro la Firenze matrigna, simbolo di una città corrotta e moralmente appestata, che tutti i ravennati dovrebbero imparare a memoria.

Qual è il Dante di Pupi Avati?

Un Dante giovane, (lo dice lo stesso Boccaccio in una scena del film), poeticissimo, emotivamente fragile, visionario. Ma questo è come Dante si autodescrive nella Vita nova. Un Dante in preda di allucinazioni. Un Dante sempre nel punto di cedere psicologicamente. Tanto che molti studiosi di spicco hanno ipotizzato che soffrisse ora di epilessia, ora di narcolessia. È un Dante passivo, signoreggiato da amore e l’amore della Vita nova è un amore spietato. Violento.

Alessandro Sperduti in “Dante”

Giustamente il Dante di Avati, così come scrive Dante stesso, quando vede Beatrice la seconda volta, turbato dal saluto di lei, fa un incubo terribile dove Beatrice stessa mangerà il cuore, costretta da Amore (un fantasma che poco ha di amorevole, tanto è terribile e inquietante). Pensare che per Barbero Dante sognava le donnine nude.

Il Dante di Pupi Avati, a mio avviso, è interpretato magnificamente da Alessandro Sperduti che restituisce tutta la dimensione lirica e delicata che Dante stesso voleva dare di sé, in quella sua prima opera giovanile. Eppure è un Dante inquieto. Al limite. Ma questo è quello che Dante scriveva. Non può essere colpa del regista.

Il culto di Boccaccio

Poi chiaramente c’è Boccaccio. E Boccaccio rappresenta il culto di tutti i poeti (e non) innamorati del Sommo Poeta. E Sergio Castellito lo rende con grandissima intensità e partecipazione emotiva. Il suo Boccaccio è un uomo malato, ferito, affaticato. Devoto. Umano. Forse a volte un po’ Padre Pio, ma comunque simpatico. Sensibile. Per lui Dante è “il padre di ogni gioia”.

C’è una scena nella quale Boccaccio recupera una lettera scritta da Dante (che poi sarebbe l’Epistola II, indirizzata ai signori di Romena). La legge. Viene colto dalla commozione. Piange. Se la porta al viso.

Questa è solo una delle numerose testimonianze di questa dedizione poetica. Finalmente viene restituito quanto Boccaccio abbia fatto per Dante. Il suo è il primo pellegrinaggio poetico. Lui è uno dei primi reporter che raccoglie informazioni da chi Dante lo conobbe, per costruire la sua biografia. Solo per questo andrebbe dichiarato patrono di tutti i dantisti (e di tutti noi dantomani).

L’amore protagonista

L’incontro tra Boccaccio e suor Antonia diventa giustamente il culmine di tutto il film. Ed è una delle scene più belle nella sua semplicità e immediatezza. Qui il regista cede il posto al poeta.

Dicevo: protagonista di questo film è l’amore.

L’amore di Dante per Beatrice, l’amore di Boccaccio per Dante. Ma di storie ne abbiamo tantissime. L’amore dei figli di Dante. L’amore di Guido. L’amore per una donna gozzuta/montanina. Persino l’amore di Dante per la moglie Gemma.

Sono amori però medievali: ruvidi, bruschi, crudi. Se non ci fosse la poesia. E la poesia è il filo rosso che tutto mitiga e addolcisce.

Altra cosa non da poco: finalmente si vede quanto la vita di Dante (ma pure di Boccaccio) sia stata dura. La scena in cui a piedi Dante scappa da Roma e si avvia solo verso l’esilio, con due borse e nient’altro, rende davvero la durezza del momento.

Un’idea piccola borghese

Noi abbiamo un’idea piccola borghese dei poeti: il poeta diventa una sorta di creatura diafana e immateriale, che scrive dalla propria turris eburnea, totalmente estraneo ai fatti della vita. Questo è il sentire comune. Così noi li immaginiamo gli scrittori. E invece no.

Dante ebbe una vita faticosissima. A tratti orribile. Una sequenza inarrestabile di fallimenti.

E io penso commosso a quest’uomo che in un momento orribile della sua vita, nel pieno fallimento individuale, sociale, politico, abbia avuto la volontà e l’ingegno di scrivere l’opera poetica più grande e luminosa di tutti i tempi.

Camei carini sparsi qua e là,  ma vince su tutti il Bonifacio VIII di Leopoldo Mastelloni (che pare Marlon Brando a fine carriera nel dottor Moreau).

Un film imperfetto

Questo non è un film perfetto.  Tante le cose che non condivido e tante le cose che non funzionano. Non importa. Da questo settecentenario Dante non è sempre uscito benissimo. Qui riprende dignità.

Questo è sicuramente un film parziale, incoerente, sghembo, a volte frettoloso, storicamente inattendibile, vacillante dal punto di vista biografico, ma sicuramente ha il pregio di far scendere Dante da un piedistallo che forse ce lo rendeva troppo monumentale e distante e di rendercelo vicino. Con rispetto. Con amore.

E poi, finezza tra le finezze, è un film che termina con la parola “stelle”. E a Dante avrebbe fatto piacere.

Sergio Castellitto interpreta Giovanni Boccaccio nel film di Pupi Avati

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