Ucraina, non solo guerra: al Festival della Bellezza in questo momento parla Yaryna Grusha, scrittrice, docente di Lingua e letteratura ucraina all’università di Milano. Una voce giovane, femminile, che apre al pubblico una tradizione sconosciuta, eclissata da una letteratura russa nota nel mondo per i suoi grandi autori, ma che è stata capace di nascondere, se non addirittura censurare, una produzione autonoma in terra ucraina.

La ricerca dei miti fondativi di un Paese, ora protagonista della storia europea per il tragico conflitto innescato dal governo di Mosca, non è un esercizio polveroso, da intellettuale distaccata. Grusha è da poco tornata da un viaggio in patria – lei è originaria di un paesino vicino a Chernobyl – e ha ancora negli occhi la devastazione, fisica e psicologica, in cui versano i suoi connazionali. Autrice per L’Inkiesta di un diario di viaggio, questa sera a Villa Mosconi Bertani porta il pubblico all’interno di una storia letteraria che si impasta con i grandi autori russi. È una amplificazione di nomi ignoti in Italia, sconosciuti a causa di un silenziamento che ha radici profonde.

Dalla repressione zarista alle purghe di Stalin

Il Salone delle muse di Villa Mosconi Bertani in Valpolicella, una delle sedi del Festival della Bellezza 2022.

“Esiste il mito della letteratura russa, tutti conosciamo Dostoevskij, Puškin, Bulgakov, Gogol. Se gli autori ucraini non sono noti si deve alla repressione, che risale al tempo zarista: il più importante poeta ucraino, Taras Ševčenko, che corrisponde a un Manzoni per l’Italia, aveva costruito la nazione attraverso i suoi testi, a metà Ottocento, quando in Europa era in corso la primavera dei popoli e si nascevano nuovi confini e identità. Fu incarcerato, per metterlo a tacere“.

In seguito il governo di Lenin diede spazio alle letterature nazionali che avevano aderito al progetto dell’Unione delle repubbliche sovietiche e ci fu una crescita editoriale, con la pubblicazione anche di generi più popolari come gialli, romanzi rosa, fantascienza, ma poco dopo si passò alle purghe staliniane. «Al posto dell’arresto ci fu la deportazione e l’uccisione, tra il 1937 e il 1938. Così si è persa un’intera generazione di intellettuali e i loro testi furono proibiti». È solo con Nikita Cruščëv che c’è una certa ripresa, mentre oggi gli intellettuali sono al fronte, o fanno volontariato e non c’è uno sviluppo naturale della letteratura nazionale. 

Via dal dominio sovietico

«In molti non conoscono la doppia natura di alcuni grandi classici: ad esempio Gogol ha due anime: scrittore ucraino nell’impero impero russo, scriveva in lingua russa ma non parlava mai di storia, se non riferendosi a quella ucraina, tanto da essere una sorta di storiografo per il Paese. D’altronde a San Pietroburgo scrivere in russo era l’unica possibilità».

In tempi più recenti, dalla fine del XX secolo e l’indipendenza conquistata nel 1991, gli scrittori hanno cominciato a smaltire le conseguenze del dominio sovietico. «Si tratta spesso di autori di madrelingua russa, legati all’immaginario che tale lingua offre, ma c’è chi ha portato avanti tematiche proprie di quella cultura, mentre altri di madrelingua ucraina hanno cominciato a scrivere della minaccia in arrivo.

Nel 2014, con l’invasione del Donbass, gli scrittori e gli intellettuali di madrelingua russa, che abitavano a Luhansk e Donesk, si sono tutti spostati a Kjiv e nessuno andato in Russia. E hanno deciso poi di usare la lingua ucraina. Una scelta morale importante, visto che la lingua è una casa in cui formulare i propri pensieri».

Lingua russa, addio

La bandiera ucraina su un ponte di Leopoli, Flickr, CC BY 2.0.

Dopo il 24 febbraio si è assistito a un abbandono della lingua russa, come segno di identità e per definire l’invasore come diverso. «Siamo cresciuti in un Paese con due lingue, ma adesso non sarà più così. E anche tra gli intellettuali vedo un forte trauma: è molto difficile trovare punti di riferimento dopo quello che si è vissuto sulla propria pelle».

Grusha invita gli intellettuali russi a «fare una riflessione interna sul perché si sia giunti a questo punto. Perché in anni passati l’intellettuale russo sia stato così debole da non produrre massa critica capace di cambiare la situazione. Oggi una piccolissima percentuale di russi è contro la guerra, è fuggita o è stata arrestata, ma resta una percentuale bassa che non riesce a scuotere la situazione.

Perché sono così pochi? Forse perché dal 1999 con arrivo di Putin si sono adattati alla situazione e non hanno lottato. Certo, ci sono state delle vittime, conosciamo l’esempio di Anna Politkovskaija, però il potere russo si è allargato comunque.

Bisogna che gli intellettuali russi lancino una riflessione profonda sul loro paese, che oggi è tra i più odiati al mondo. Mentre i colleghi ucraini devono dare supporto alla popolazione in idee e dare la forza di andare avanti. La guerra può durare tanto».

Quasi una letteratura dal fronte

Dal fronte arrivano tweet, post sui social, le app di messaggistica testimoniano se un combattente sia ancora vivo. Lo scrittore Artem Chekh, ora di stanza vicino a Chernobyl, pochi giorni fa ha pubblicato sul New York Times un saggio di in cui dichiara di aver accettato la sua morte. «Lo conosco bene, si trova vicino a dove vivono i miei genitori. E questo dà il polso di questa strana guerra, vissuta sempre in diretta e diventata anche digitale nella sua comunicazione. È penoso, ma lo facciamo tutti: andiamo a scorrere i social di chi sta combattendo per capire se stia bene. E quando non abbiamo notizie, quella schermata congelata è la realtà del 2022».

L’immagine del Festival della Bellezza 2022 è opera di Andrea Bernacchio.

Ucraina, Europa?

Se l’ucrainistica in Italia è un settore di nicchia, ora avvicinare questa letteratura è un modo per conoscere un’identità, che ha punti in contatto con l’Europa.

«Dalla metà Ottocento è una scrittura impegnata nella lotta per il proprio spazio all’ombra della letteratura russa, quindi i testi più volte sono un manifesto socio-politico. Due scrittori, Mykhajlo Kocjubyns’kyj e Lesja Ukrainka, venivano in Italia per curarsi, a Capri il primo, e a San Remo la seconda, che traduceva dall’italiano all’ucraino, portando in patria la letteratura italiana. E poi parte dell’attuale Ucraina faceva parte dell’impero austroungarico, il quale consentiva la pubblicazione di testi di ucraini provenienti dall’impero russo».

Se i grandi russi sono legati alla tensione tra il bene e il male, «la scrittura ucraina mira a un bilanciamento, a un’armonia. Il 13 settembre uscirà una raccolta, Poeti di Ucraina (Mondadori), curata insieme ad Alessandro Achilli, e a gennaio con Bur uscirà un libro con racconti ambientati a Kijv, tra autori russi celebri e ucraini poco noti. Credo che questi testi daranno idea di quale sia la vicinanza con la letteratura europea».

Diaspore senza dialogo

Fuori dai territori di conflitto, la diaspora ucraina e quella russa non dialogano. Anche se ci sono alcune manifestazioni da parte di russi antiputiniani, non c’è un vero e proprio avvicinamento tra esuli e profughi. «Non è per astio, ma per la profondità del trauma. Il conflitto c’è ancora, gli ucraini oggi hanno perso fiducia verso tutti i russi. Anche perché non si può paragonare il disagio di un ucraino con quello di un russo espatriato. Anche chi ha buone intenzioni, deve riguadagnare fiducia degli ucraini con i gesti».

Limitare quindi agli artisti russi la possibilità di esibirsi o vietare la conoscenza letteratura russa è una scelta condivisibile? «Gli stessi artisti e gli intellettuali russi devono riflettere e indossare una lente di decolonizzazione, per avviare una riflessione profonda e comprendere che sono stati dentro una cultura imperialista. Non condivido la censura, però se parliamo di Dostoevski dobbiamo anche conoscere la sua posizione sciovinista. Nel suo diario sul viaggio in Europa scrive che essa è il male, e che solo la Russia la potrà salvare. È l’idea che c’è dietro anche a questa guerra».

E aggiunge: «Oggi gli artisti ucraini sono sotto minaccia di essere eliminati, mentre gli intellettuali russi sono comodamente all’estero oppure al sicuro in patria, per loro non è cambiato nulla.

In futuro dovremo fare i conti con un trauma collettivo degli ucraini e con la colpa collettiva dei russi, come è accaduto in Germania e la sua letteratura del dopoguerra».

Un presidente ancora sostenuto dagli ucraini

A distanza di sei mesi, nonostante manchi una prospettiva di conclusione del conflitto, l’opinione pubblica a Kijv è ancora a fianco del presidente Zelensky. «Io non l’ho votato, ma dico tanto di cappello perché non è scappato, nonostante glielo avessero proposto. La sua leadership è riconosciuta dal 90 per cento degli ucraini, i sondaggi confermano il sostegno da parte dei suoi connazionali».

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, foto Flickr, pubblico dominio.

Una vicinanza che anche quest’estate, durante la quale la guerra in Ucraina era quasi scomparsa dalla cronaca italiana, ha dimostrato la sua compattezza davanti a un servizio giornalistico per Vogue International, che ha scaldato le polemiche, soprattutto in Italia.

«Le donne ucraine hanno risposto a quelle foto con un flash mob, riprendendosi come Olena Zelenska in quella posa stanca, ma non arresa, per sostenere il messaggio. Zelensky viene dal mondo dello spettacolo, conosce la forza delle immagini e se il servizio può aiutare a vincere questa guerra, ben venga. D’altronde, non tutti gli ucraini sono al fronte, altri cercano di lavorare e tenere in piedi un sistema economico, compreso quello della moda, che sta crollando. Anche così si lavora per tenere in piedi il Paese. Ora la piccola factory di moda ucraina produce scarpe e abbigliamento per l’esercito, anch’io ho comprato delle cose, tra queste un vestito bianco che ho visto in un negozio totalmente vuoto. La vita in Ucraina non va avanti in modo normale, ma si fa ugualmente la propria parte per proteggere il Paese».

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