Premetto che questo breve intervento non ha il taglio teoretico di un’analisi filosofica. Non avrebbe senso. Mi piace invece pensarlo come una specie di aperitivo concettuale, l’innesco di un desiderio di approfondimento che ognuno poi con i propri mezzi e strumenti potrà realizzare. In tale prospettiva mi sono proposto di richiamare l’attenzione sulla “permanenza” delle massime di Epicuro nel nostro pensiero “ordinario” e sulla incredibile “attualità” del suo insegnamento.

Devo poi precisare che per avere un quadro sufficientemente chiaro della filosofia antica sono indispensabili alcuni strumenti critici come, ad esempio, l’o­pera dettagliata e chiarissima di Giovanni Reale [1] e/o il recentissimo lavoro storiografico diretto da Giorgio Penzo, e curato da Paolo Salandini e Roberto Lolli, che dedica alle origini una ricca e articolata sezione [2]. Imprescindibili, infine, per l’età più antica i tre volumi sulla sapienza greca curati da Giorgio Colli [3].

Il mio approccio ad Epicuro risale al Ginnasio (oggi dovremmo dire al “primo biennio del Liceo Classico”), all’inizio del mio cammino nella scuola superiore. Fu in quella inquieta stagione che trovai nella libreria di famiglia sia il libro bianco a strisce rosse della NUE curato da Graziano Arrighetti [4] sia la prima edizione critica dell’Etica curata da Carlo Diano [5], e ho sempre vissuto il rapporto con i testi epicurei come qualcosa di molto personale, direi, quasi esclusivo e per me molto importante; forse per la loro incisiva e cristallina velocità, non diversamente dalle Pensées di Pascal, dai Minima Moralia di Adorno o dagli Aforismi di Marburgo di Ferruccio Masini.

La natura di Epicuro

Ciò che colpisce in Epicuro (peraltro analogamente a quanto capita ai fondatori dell’altra grande scuola filosofica post-classica, lo Stoicismo) è l’attenzione per la φύσις, physis (“natura”). I pensatori post-platonici e post-aristotelici si ricollegano ai grandi sapienti delle origini, i cosiddetti Presocratici, i quali hanno cercato di spiegare le cose del modo e dell’uomo staccandosi dalla suggestione mitica per affidarsi interamente alla riflessione razionale. Abitualmente fra gli addetti ai lavori (pur con qualche polemica e con molti distinguo) si usa indicare questo passaggio con l’espressione “Dal μῦθος mythos al λόγος logos” [6]. Va detto che il grande Aristotele non aveva trascurato la fisica, anzi aveva studiato il cielo, gli animali, il loro movimento e la loro riproduzione. Tant’è che aveva denominato la disciplina che veniva dopo lo studio delle cose fisiche (in greco τὰ φυσικά, ta physikà) proprio dalla sua posizione nell’ordine della ricerca: τὰ μετὰ τὰ φυσικά tà metà tà physikà ovvero “gli argomenti dopo quelli della natura”, un po’ come noi oggi parliamo di condizione post-moderna, qualificando questa definizione non in sé e per sé, ma in rapporto all’epoca che la precede. Il fatto è che i due massimi pensatori antichi, Platone e Aristotele, avevano enfatizzato molto gli aspetti schiettamente teoretici, lasciando di fatto in secondo piano la fisica.

Per Epicuro invece la fisica diventa il fondamento di una visione del mondo rigorosamente laica. Possiamo dire, forse, che Epicuro è il primo umanista, nel senso che nella dimensione umana e nella sua capacità di percezione diretta del mondo egli non vede solitudine, abbandono, tristezza, imperfezione e malinconica impotenza, ma fondamento e principio di un modo corretto di leggere e interpretare la condizione universale dell’uomo.

Il “problema della vita”

Giovanni Reale sottolinea con forza come «il problema della vita» divenga per Epicuro «il problema per eccellenza: tutto il resto viene finalizzato alla soluzione di questo problema.» [7] E ancora: «Epicuro elabora una “canonica” e soprattutto una “fisica”, appunto per dare all’etica una fondazione non solo antropo­logica, ma anche ontologica, perché una visione dell’uomo non può veramente giustificarsi se non in funzione di una concezione del cosmo e dell’essere, di cui l’uomo è parte.» [8]. In parole povere: la giustificazione delle concezioni etiche epicuree si deve individuare nella fisica. In fondo è la fisica che dà al pensiero di Epicuro una dimensione tutta particolare ed originale, non solo nel mondo antico, ma anche nelle epoche successive, fino allo stesso Galileo.

I princìpi cardine della visione etica epicurea, infatti, costituiscono una weltanschauung all’interno della quale la fisica non è secondaria, ma elemento di primaria importanza. Sul piano strettamente filosofico Epicuro aveva tre punti di riferimento fondamentali nei Presocratici: Parmenide, con la sua visione del­l’Es­sere; Democrito, fondatore dell’Atomismo; e infine Eraclito, che con l’idea di Divenire offre ad Epicuro lo spunto per conciliare il principio della immutabilità della materia con il suo comporsi e decomporsi. Immutabili sono gli atomi, quindi eterna è la materia, unica vera realtà, ma mutevoli in continuazione sono le aggregazioni degli atomi, per cui le cose del mondo sono in costante e inarrestabile trasformazione.

Essenziale poi nel pensiero epicureo è il concetto di saggezza. La filosofia non è intricata serie di elucubrazioni sganciate dall’esperienza, ma fondamento di riflessione finalizzata a rendere migliore la vita e l’uomo. Il valore di riferimento è quindi l’assennata capacità di giudizio (come si vedrà dai testi più sotto riportati) che in greco si chiama φρόνησις phrònesis e consente al sapiente di misurarsi correttamente con la realtà, soprattutto nel giudicare il valore delle percezioni sensoriali e di evitare di cadere in opinioni errate. Esemplare in tal senso una sentenza che definisce bene il compito del sapiente:

Κενὸς ἐκείνου φιλοσόφου λόγος ὕφ’οὗ μηδὲν πάθος ἀνθρώπου θεραπεύεται. ὥσπερ γὰρ ἰατρικῆς οὐδὲν ὄφελος μὴ τὰς νόσους τῶν σωμάτων ἐκβαλλούσης, οὕτως οὐδὲ φιλοσοφίας, εἰ μὴ τὸ τῆς ψυχῆς ἐκβάλλει πάθος.

Vuoto è il discorso di quel filosofo dal quale nessuna sofferenza dell’uomo viene curata. Come infatti non v’è alcuna utilità di una medicina che non cacci le malattie dai corpi, così anche di una filosofia, se non caccia la sofferenza dall’anima. (Frg. 2 Diano=221 Usener)

La concretezza del buon senso

Si direbbe che Epicuro ami la concretezza del buon senso, se in realtà il suo non fosse un ragionamento che fila come una freccia al bersaglio. Gli storici della filosofia rilevano nel pensiero di Epicuro molte aporie. Ma sembra quasi che lui ne fosse consapevole e non se ne curasse, convinto come era che non la logica inflessibile determinasse il valore di un pensiero, ma la sua plausibilità e la concretezza delle sue conseguenze nella vita degli uomini.

In estrema sintesi possiamo riassumere come segue il percorso logico epicureo:

  1. La realtà è costituita da materia e vuoto: nulla si crea, nulla si distrugge. La materia è infinita ed è in permanente evoluzione.
  2. La materia è composta da elementi minimi, gli atomi, dalla cui aggregazione e disaggregazione si compongono e scompongono tutte le cose del mondo: oggetti inanimati, piante, animali e uomini.
  3. Le aggregazioni sono frutto del caso, ma le cose nate dall’aggregazione obbediscono a leggi precise, necessarie secondo natura; infiniti sono i mondi possibili, il nostro è uno dei tanti.
  4. Gli dèi esistono, ma non possono intervenire nel mondo, vivono in spazi loro propri ed è inutile pregarli, perché la materia obbedisce alle sue leggi, sulle quali gli dèi non hanno alcun potere. L’uomo è perciò libero nelle sue decisioni e può sottrarsi alla necessità.
  5. L’uomo può conoscere il mondo in modo corretto e veritiero grazie ai suoi sensi, che sono colpiti dalle sensazioni derivanti dall’influsso delle cose sui sensi stessi. Gli influssi sono autentici perché oggettivi e negare la credibilità di una sensazione comporta la negazione della credibilità di tutte le sensazioni.
  6. Il bene supremo per l’uomo è uno stato nel quale le sensazioni non gli arrecano dolore. Quindi il bene supremo è il piacere, l’ἡδονή hedoné.
  7. Tutto ciò che arreca turbamento, come le passioni alimentari, erotiche, economiche, politiche, va evitato. Il sommo piacere è nella ἀταραξία ataraxìa “imperturbabilità, mancanza di inquietudine”.
  8. I desideri si distinguono in naturali e necessari, naturali e non necessari, non naturali e non necessari.
  9. Fra i turbamenti il più grande è la paura della morte, ma è un errore. Quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi. Quindi non c’è motivo di temere ciò che non possiamo percepire.
  10. Il saggio conosce questi principi e vive senza dolore, evitando il piacere che gli procura turbamento e cercando il piacere che gli procura serenità.

Di Epicuro possediamo, grazie alla testimonianza di Diogene Laerzio, tre lettere: A Erodoto, sulla fisica; A Pitocle sul cielo e i fenomeni atmosferici, e A Meneceo, sull’etica.

Questo passo della Lettera a Meneceo (128; 131-132), che è considerata la summa del pensiero etico epicureo, sintetizza bene come l’idea di “piacere” che ha Epicuro vada ben oltre gli aspetti meramente sensuali e fisici ai quali un pensiero stereotipato e privo di fondamento logico ha ridotto l’etica epicurea nell’opi­nione corrente.

Τότε γὰρ ἡδονῆς χρείαν ἔχομεν, ὅταν ἐκ τοῦ μὴ παρεῖναι τὴν ἡδονὴν ἀλγῶμεν· ὅταν δὲ μὴ ἀλγῶμεν οὐκέτι τῆς ἡδονῆς δεόμεθα. Καὶ διὰ τοῦτο τὴν ἡδονὴν ἀρχὴν καὶ τέλος λέγομεν εἶναι τοῦ μακαρίως ζῆν. (…).

 ῞Οταν οὖν λέγωμεν ἡδονὴν τέλος ὑπάρχειν, οὐ τὰς τῶν ἀσώτων ἡδονὰς καὶ τὰς ἐν ἀπολαύσει κειμένας λέγομεν, ὥς τινες ἀγνοοῦντες καὶ οὐχ ὁμολογοῦντες ἢ κακῶς ἐκδεχόμενοι νομίζουσιν, ἀλλὰ τὸ μήτε ἀλγεῖν κατὰ σῶμα μήτε ταράττεσθαι κατὰ ψυχήν.  οὐ γὰρ πότοι καὶ κῶμοι συνείροντες οὐδ’ ἀπολαύσεις παίδων καὶ γυναικῶν οὐδ’ ἰχθύων καὶ τῶν ἄλλων ὅσα ϕέρει πολυτελὴς τράπεζα, τὸν ἡδὺν γεννᾷ βίον, ἀλλὰ νήϕων λογισμὸς καὶ τὰς αἰτίας ἐξερευνῶν πάσης αἱρέσεως καὶ ϕυγῆς καὶ τὰς δόξας ἐξελαύνων, ἐξ ὧν πλεῖστος τὰς ψυχὰς καταλαμβάνει θόρυβος. Τούτων δὲ πάντων ἀρχὴ καὶ τὸ μέγιστον ἀγαθὸν ϕρόνησις. διὸ καὶ ϕιλοσοϕίας τιμιώτερον ὑπάρχει ϕρόνησις, ἐξ ἧς αἱ λοιπαὶ πᾶσαι πεϕύκασιν ἀρεταί, διδάσκουσα ὡς οὐκ ἔστιν ἡδέως ζῆν ἄνευ τοῦ ϕρονί­μως καὶ καλῶς καὶ δικαίως, οὐδὲ ϕρονίμως καὶ καλῶς καὶ δικαίως ἄνευ τοῦ ἡδέως. συμπεϕύκασι γὰρ αἱ ἀρεταὶ τῷ ζῆν ἡδέως καὶ τὸ ζῆν ἡδέως τούτων ἐστὶν ἀχώριστον. 

Proprio allora abbiamo bisogno del piacere: quando per il fatto che non c’è il piacere soffriamo. Ma quando non soffriamo, non sentiamo più la mancanza del piacere. Ed è per questo che diciamo che il piacere è principio e fine del vivere felicemente. (…). Quando dunque diciamo che il piacere è il fine, non intendiamo riferirci ai piaceri dei dissoluti e a quelli che si trovano nella soddisfazione dei sensi, come ritengono alcuni che non conoscono o non condividono o che male interpretano il nostro pensiero, ma il non soffrire nel corpo, e il non esser turbati nell’anima. Non, infatti, bevande o feste ininterrotte o godimenti di ragazzi e donne, né degustazione di pesci e di quante altre vivande offre una tavola sontuosa, procurano una vita piacevole, ma una riflessione assennata, in grado di discernere le ragioni di ogni approvazione e di ogni rifiuto e di scacciare le opinioni in conseguenza delle quali un gradissimo turbamento si impadronisce delle anime. Di tutte queste cose principio e bene supremo è la saggezza. Perciò la saggezza è anche più degna d’onore della filosofia, perché è da lei che naturalmente derivano tutte le altre virtù, è lei che insegna come non è possibile vivere con piacere se non con saggezza, bellezza e giustizia, né è possibile vivere saggiamente, bene e secondo giustizia senza il piacere. Le virtù, infatti, sono connaturate al vivere con piacere e il vivere con piacere è inseparabile da queste.

Le massime capitali

Ci sono inoltre giunte due raccolte di massime: una di cinquanta, denominate Κύριαι δόξαι, Kyriai doxai, Massime capitali, in latino Ratae Sententiae, e una seconda di ottantuno, in parte coincidente con la prima, conservata in un manoscritto vaticano denominato Gnomologio Vaticano.

Al termine di questa veloce escursione ci sembra opportuno riportarne alcune di formidabile chiarezza e incisiva efficacia (traduzione nostra):

Massime Capitali

Κύριαι Δόξαι, Ratae Sententiae,

(Ed. G. Arrighetti)

(2)       ‘Ο θάνατος οὐδὲν πρὸς ἡμᾶς· τὸ γὰρ διαλυθὲν ἀναισθητεῖ, τὸ δ’ ἀναισθητοῦν οὐδὲν πρὸς ἡμᾶς.

Nulla è per noi la morte; perché ciò che è dissolto non ha sensibilità

e ciò che non si può percepire è nulla per noi.

(8)       Οὐδεμία ἡδονὴ καθ’ ἑαυτὴν κακόν· ἀλλὰ τὰ τινῶν ἡδονῶν ποιητικὰ             πολλαπλασίους ἐπιϕέρει τὰς ὀχλήσεις τῶν ἡδονῶν. 

Nessun piacere è di per sé un male, ma i mezzi che procurano certi piaceri portano molto più numerosi e maggiori fastidi che piaceri.

(11)     Εἰ μηθὲν ἡμᾶς αἱ τῶν μετεώρων ὑποψίαι ἠνώχλουν καὶ αἱ περὶ θανάτου, μήποτε πρὸς ἡμᾶς ᾖ τι, ἔτι τε τὸ μὴ κατανοεῖν τοὺς ὅρους τῶν ἀλγηδόνων καὶ τῶν ἐπιθυμιῶν, οὐκ ἂν προσεδεόμεθα ϕυσιολογίας. 

Se le paure dei fenomeni atmosferici e quelle intorno alla morte e ancora il non comprendere i limiti dei dolori e dei desideri non ci procurassero alcun turbamento con il sospetto che in qualche modo ci riguardino, non avremmo bisogno della scienza della natura.

(17)     ‘Ο δίκαιος ἀταρακτότατος, ὁ δ’ ἄδικος πλείστης ταραχῆς γέμων. 

Il giusto è assolutamente privo di inquietudine, l’ingiusto è pieno della massima inquietudine

(25)     Τῶν ἐπιθυμιῶν αἱ μέν εἰσι ϕυσικαὶ καὶ ἀναγκαῖαι, αἱ δὲ ϕυσικαὶ καὶ οὐκ ἀναγκαῖαι, αἱ δὲ οὔτε ϕυσικαὶ οὔτε ἀναγκαῖαι, ἀλλὰ παρὰ κενὴν δόξαν γινόμεναι.

Fra i desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri ancora né naturali né necessari, ma nascono presso una vana opinione

            [Chiosa di un ignoto commentatore:

Φυσικὰς καὶ ἀναγκαίας ἡγεῖται ὁ ’Επίκουρος τὰς ἀλγηδόνος ἀπολυούσας, ὡς ποτὸν ἐπὶ δίψους· ϕυσικὰς δὲ οὐκ ἀναγκαίας δὲ τὰς ποικιλλούσας μόνον τὴν ἡδονήν, μὴ ὑπεξαιρουμένας δὲ τὸν ἄλγημα, ὡς πολυτελῆ σιτία· οὔτε δὲ ϕυσικὰς οὔτε ἀναγκαίας, ὡς στεϕάνους καὶ ἀνδριάντων ἀναθέσεις.

Epicuro ritiene naturali e necessari i desideri che liberano dal dolore fisico, come bere per la sete; naturali e non necessari quelli che si limitano a variare il piacere, ma non tolgono la sofferenza, come i cibi raffinati; né naturali né necessari quelli come corone e statue innalzate per onore.]

(27)     ῟Ων ἡ σοϕία παρασκευάζεται εἰς τὴν τοῦ ὅλου βίου μακαριότητα πολὺ μέγιστόν ἐστιν ἡ τῆς ϕιλίας κτῆσις. 

Di tutte le cose che la sapienza procura per la felicità della vita intera di gran lunga il più grande è l’acquisizione dell’amicizia

(33)     Οὐκ ἦν τι καθ’ ἑαυτὸ δικαιοσύνη, ἀλλ’ ἐν ταῖς μετ’ἀλλήλων συστροϕαῖς καθ’ ὁπηλίκους δήποτε ἀεὶ τόπους συνθήκη τις ὑπὲρ τοῦ μὴ βλάπτειν ἢ βλαπτεσθαι. 

La giustizia non sarebbe qualcosa che esiste di per sé, ma un patto nelle relazioni reciproche stretto in genere sempre in determinati luoghi per non recare o subire danno.

Queste espressioni, così intense e severe, ci presentano un Epicuro tutt’altro che dedito ai piaceri e al divertimento. Siamo di fronte a un’etica che potremmo definire ascetica, perfino monastica e perfettamente aderente a quel principio per il quale Epicuro è spesso citato ancor oggi anche nei convegni dei manager: Λάθε βιώσας Lathe biosas, che, per una particolare norma d’uso del greco, va tradotto “Vivi nascosto”.

È ben strano che questa espressione non ci sia giunta nelle opere che abbiamo citato, ma sia stata tramandata da Plutarco, che intitolò uno dei suoi innumerevoli opuscoli, noti con il titolo complessivo di Moralia, appunto Εἰ καλῶς εἰρηται Λάθε βιώσας,  in latino De latenter vivendo ovvero Sul vivere nascostamente,  (ma alla lettera “Se sia stato detto bene, Vivi nascostamente”).

Il precetto peraltro è perfettamente coerente con i testi tramandati e per la sua efficacia lapidaria ancor oggi è il mantra di tutti coloro che stanno vivendo con una certa nausea questo tumulto di comunicazioni, questa tempesta di social media, questa assordante e starnazzante vita politica, nella quale sembra che i veri problemi non sempre siano compresi proprio da coloro che dovrebbero farsene carico.

Una conversione a 180°

Siamo di fronte a una filosofia che comporta, se confrontata con la tradizione classica greca, una conversione a 180° gradi. La polis e la condivisione comunitaria dei problemi sono finite. L’uomo dell’età di Epicuro è solo e cerca una sua personale ragione di vita. Dall’idea che Pulchrum est pro patria mori all’affer­mazione che non vale nemmeno Pro patria vivere. Una provocazione totale, non solo per la tradizione greca, ma anche e soprattutto per la visione culturale romana. Cicerone si opporrà strenuamente alla penetrazione dell’epicu­reismo in Roma, anche se lo studierà a fondo. Incredibilmente sarà lo stoico Seneca che in età imperiale farà continuo riferimento a Epicuro come ad un esempio di assoluta e indefettibile temperanza.

Il cristianesimo osteggerà l’idea che il piacere possa essere il fine della vita, ma si farà erede di un’esistenza riservata e solitaria che, con la diffusione del monachesimo fin dai primi secoli dell’era volgare, diventerà poi nella interpretazione di Benedetto il cardine di un incredibile rinnovamento spirituale in Europa. Ma il cuore vivo e provocatorio della filosofia del piacere sarà ibernato, come pericolosa fonte di deviazione rispetto alla dimensione del sacrificio, del dolore e della sofferenza vissuti e propugnati come fattori di riscatto dell’a­nima. Ma possiamo ben dire che quella fu una lettura parziale, probabilmente più condizionata dal materialismo della fisica che dal rischio del peccato prodotto da un’etica “alternativa”.

Forse è il caso che anche noi ricollochiamo Epicuro nella giusta luce, oggi che la fisica torna a far sentire la sua voce e a riaffermare con decisione i suoi diritti sulla filosofia [9].

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[1] Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, 5 volumi, Vita e Pensiero, Milano 1989-1991. Alle filosofie Ellenistiche è dedicato il terzo volume.

[2] Filosofie nel Tempo, a cura di Paolo Salandini e Roberto Lolli. Opera diretta da Giorgio Penzo. Volume primo. Dalle origini al XIV secolo d. C., Tomo I, Spazio Tre, Roma 2001.

[3] Giorgio Colli, La sapienza greca, 3 volumi, Adelphi, Milano 1977-1980

[4] Epicuro, Opere. Introduzione, traduzione e note di Graziano Arrighetti, Einaudi, NUE n. 88, Torino 1967, al quale rimandiamo come fondamentale punto di inizio.

[5] Epicuri Ethica. Edidit, adnotationibus instruxit Carolus Diano, in Aedibus Sansonianis, Florentiae, MCMXLVI

[6] L’espressione si rifà al celeberrimo studio, pietra miliare della storiografia filosofica greca: Wilhelm Nestle, Von Mythos zum Logos. Die Selbstentfaltung des griechischen Denkens von Homer bis auf die Sophistik und Sokrates, Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 1940.

[7] Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, III p. 171

[8] Ibidem, p. 170. La Canonica è la teoria della conoscenza, che in Epicuro attribuisce alle percezioni dei sensi una fondamentale importanza. Corsivo originale.

[9] Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020