La pandemia ha comportato un cambiamento nel legame tra noi e il cibo: durante il lockdown in tanti ci siamo riscoperti produttori e non solo consumatori.

Ricordiamo i giorni in cui lievito e farina sono scomparsi rapidamente dagli scaffali, mentre i social si riempivano di foto di pizze, pane, torte e altri manicaretti preparati in casa e poi mostrati orgogliosamente sul web.

C’è chi si è spinto un po’ più in là, andando a provare la creazione di orti casalinghi o di terrazzi con vasi pieni di erbe aromatiche e piccole piante. Secondo uno studio dell’osservatorio Nomisma, società di ricerche di mercato, nel 2020 il 7% degli italiani ha cominciato a occuparsi di giardinaggio proprio durante la quarantena.

L’incremento del tempo libero da trascorrere in casa, il desiderio di circondarsi di cose belle e piacevoli e la necessità, per quanto possibile, di distrarsi hanno incrementato il numero degli appassionati di giardinaggio, passati dai 16 milioni del 2019 ai 19 milioni nei tre mesi del lockdown.

C’è stata quindi anche una riscoperta della naturalità e della stagionalità dei prodotti vegetali, una presa di consapevolezza dell’essere ancora parte di una natura e non solo abitanti di luoghi artificiali.

l’agroecologa Raganato, foto autorizzata

Corinna Raganato, laureata in Agrotecnologie, è convinta che questa consapevolezza sia ben presente nell’essere umano, solo che è rimasta assopita. La brusca fermata causata dalla pandemia ha dato una scossa al torpore in cui eravamo immersi.

«Pur vivendo in contesti fortemente artificiali, il nostro cervello sa di aver bisogno di natura, la brama e la ricerca. Ecco perché durante il 2020, come anche nel 2021, sono aumentate le persone che cercano un contatto con la natura attraverso il giardinaggio e la creazioni di orti casalinghi».

Raganato, di Castelfranco Veneto, si occupa di agricoltura biologica fornendo consulenza sui vari aspetti produttivi. È tecnico controllore per il rilascio della certificazione biologica alle aziende che lo richiedono per conto del ministero delle Politiche agricole e ambientali. Come agroecologa inoltre, insegna in corsi per orticoltori “agroecologici”.

Dott.ssa Raganato, da dove le arriva questa passione per l’agricoltura e la coltivazione biologica?

«È una passione che ho sempre avuto. Se ci penso, torno immediatamente alla mia infanzia. A quando passavo le giornate arrampicata sugli alberi, a mangiare frutta che raccoglievo da me. La mia famiglia aveva un grande giardino e io giocavo sempre lì. Oppure me ne andavo in giro per la campagna, a cercare girini. Il contatto con la natura è sempre stato continuo per me. Ora è essenziale.»

Sembra quasi descrivere un Veneto che non c’è più…

«Sì, me ne rendo conto, e forse in parte è vero. Se ci pensa, i bambini non giocano più in spazi aperti, liberi, in autonomia. Anche quando escono di casa, gli spazi che trovano sono sempre organizzati dagli adulti, se non completamente artificiali.

Inoltre non dimentichiamo che il Veneto è una delle regioni più inquinate a livello europeo: soffre di un alto tasso di cementificazione, sta perdendo habitat e superfici agricole. Dal punto di vista dell’inquinamento dell’aria non siamo messi bene, e anche le falde acquifere ne stanno risentendo.»

E in questo contesto lei propone corsi di agroecologia: che accoglienza sta avendo?

foto Kampus Production, pexels

«Bellissima. Perché noi veneti siamo i primi ad esserci stancati di come sta messo l’ambiente che ci circonda. Non è vero che le gente in Veneto si cura solo del profitto economico: siamo stanchi di tutto questo cemento, siamo stanchi di essere rinchiusi in un mondo artificiale. Stanchi di vedere abbattuti alberi per far spazio a costruzioni.

Durante il lockdown poi, abbiamo vissuto sulla nostra pelle quanto dipendiamo dagli altri per il cibo, come quando si erano bloccati i trasporti della filiera alimentare. La gente ha provato il desiderio di riscoprire il famoso chilometro zero, di prodursi da sola le verdura, di mangiare cibo più sano

Ma cos’è esattamente, l’agroecologia?

«È una scienza che unisce l’agronomia, cioè l’usare terreno per produrre, con l’ecologia, che invece studia l’interazione tra essere viventi e ambiente. In sintesi significa applicare i principi ecologici alla gestione della produzione agricola.

Il contadino quindi diventa uno degli elementi del sistema, il regista di tutte queste interazioni.

Cambia il suo rapporto con le piante, ma cambia anche il rapporto tra tecnico e orticoltore.

Prima la scienza agrotecnologica aveva una forte connotazione piramidale: c’è lo scienziato o il tecnico che dà istruzioni al contadino che esegue.

foto Kampus Production, from pexels

L’agroecologia invece mette tutti sullo stesso piano: tanto il tecnico e lo studioso quanto l’agricoltore hanno lo stesso peso nei processi decisionali. Entrambi hanno del sapere da usare per valutare al meglio la situazione e prendere le decisioni corrette. Perché appunto, ciò che si osserva sono le tantissime interazioni tra piante, ambiente, insetti, parassiti.

Non è semplice mettere d’accordo tutto questo affinché tutti possano godere del risultato: il contadino con il suo raccolto, la natura con il suo ecosistema.

L’agroecologia è molto sviluppata in varie parti del mondo. In Sud America per esempio è materia universitaria. Ma non solo. Molti movimenti sociali di contadini l’hanno abbracciata perché crea aggregazione, trasmissione di saperi, riappropriazione del terreno. Da noi invece potrebbe rappresentare il cambio di rotta per una maggiore cura della nostra terra

Infatti, nel suo corso, lei parla anche di cambiamento climatico.

«Certamente. E lo faccio non solo per gli aspetti pratici, pensi ai repentini cambi di temperature, alle bombe d’acqua, alle tempeste improvvise, alla siccità estiva. Tutti indicatori del cambiamento del clima che affettano moltissimo le coltivazioni.

Lo faccio anche perché studi internazionali hanno confermato che una diversa gestione del territorio, da parte dell’agricoltura, contribuirebbe in modo significativo a contrastare il cambiamento climatico. Gli agricoltori, diventando alleati della terra, potrebbero arrivare a salvaguardarla.

Pensi che l’agricoltura, a livello mondiale, contribuisce per il 35% al cambiamento climatico. D’altra parte però i contadini sono i primi ad essere messi in difficoltà dagli eventi climatici estremi degli ultimi anni.

L’agroecologia potrebbe essere il volano per cambiare tutto questo. La stessa Unione Europea l’ha riconosciuta come strumento per la salvaguardia della biodiversità e una rinnovata gestione del territorio.»

Da dove è nata l’idea dei corsi online per orti agroecologici?

«Dalla necessità. Nel 2020 ero appena partita con tre corsi in presenza. C’erano settanta persone iscritte, avevo ricevuto già tutte le adesioni. E poi è arrivato il lockdown. Eravamo tutti fermi a casa. Allora ho pensato di continuare il corso via Skype. È stata un’esperienza molto stimolante, c’erano persone di tutte le età. Ci sono stati anziani che hanno dovuto imparare a usare il pc ma è stato molto bello.

foto Kampus Production, form pexels

Nel 2021 ho quindi riproposto l’esperienza, questa volta organizzandola fin da subito come una formazione online. Di nuovo ho avuto una bella risposta: si sono iscritti anche italiani che vivono in Inghilterra, a Praga, a Bruxelles. È stato emozionante.

Tutte persone diverse, anche molto distanti, ma tutte con il desiderio di imparare a relazionarsi con le piante, con la natura. Con il desiderio di migliorarsi e aumentare la consapevolezza del proprio stare al mondo

Quindi anche in Veneto l’agroecologia può diventare un movimento aggregativo?

«Direi di sì. Nel 2020 è stato senz’altro un modo per creare relazioni nuove in pieno lockdown».

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