La Cina è da molti anni un valido partner commerciale per l’Italia e vi ha canalizzato ingenti investimenti. Dal 2000 ad oggi, l’Italia rimane stabilmente al terzo posto tra i Paesi europei per volumi di investimenti cinesi, dopo Regno Unito e Germania. In tempi più recenti si nota un incremento del traffico commerciale, favorito anche da accordi bilaterali settoriali ma anche iniziative a livello globale come la Belt and Road Initiative, il progetto infrastrutturale e commerciale che la Cina propone a numerosi Paesi del mondo.

Nel marzo 2019 è proprio l’Italia il primo Paese del G7 ad aderire con entusiasmo e grande copertura mediatica, causando non pochi malumori a livello di istituzioni europee. Quello era in effetti un tempo difficile per coltivare le relazioni europee, con la coalizione giallo-verde che instilla dubbi di Italexit e lascia espandere incontrollata l’onda del populismo. Qualcosa è cambiato da allora, vediamo come.

La Belt and Road Initiative

Il Memorandum of Understanding firmato nel 2019 è una sorta di accordo quadro per favorire lo sviluppo di progetti congiunti Italia-Cina, una maggior collaborazione economica (si legge: investimenti cinesi) in aree strategiche come energia, trasporti e agricoltura tra i due Paesi, sia nel settore pubblico che nel privato. A firmarlo è il governo autoproclamatosi “degli onesti”, nato dalla inedita coalizione tra Movimento 5 Stelle e Lega.

L’ex premier italiano Giuseppe Conte

Fin da subito, diversi think tank – tra cui l’italiano Torino World Affairs Institute – prendono le distanze dalle proiezioni poste alla base della decisione, usando termini eleganti per dichiararne l’inattendibilità. Ma il Conte Primo, sostenuto dai fidati Salvini e Di Maio, va dritto per la sua strada, alla strenua ricerca di un alleato pieno di soldi.

Come attenuante, va considerato che la decisione matura in un momento di relazione ai minimi termini sia con gli Stati Uniti sia con la UE. Trump è un grande amico, a parole, della visione populista ma appare molto concentrato sul rilancio domestico, mentre le istituzioni europee vivono una fase storica precaria, con crisi interne e mine vaganti e appare focalizzata sul proprio ombelico tremolante, più che verso il supporto ai Paesi membri.

Tempesta (politica) d’agosto

Un primo cambiamento arriva con il Conte Secondo, sulla scia delle edificanti sedute in Parlamento in cui da un lato Salvini esprime pacate rimostranze e dall’altro il premier contesta ogni accusa e rilancia punto su punto, come mai si era visto in Italia. Immagini che rimarranno scolpite nella memoria e che portano il nostro Paese a un nuovo governo, formato stavolta da una coalizione tra M5S e Partito Democratico. Per qualche motivo non ha un soprannome e per questo glielo diamo noi: il “governo dei tentativi”.

E qualcosa succede in quel finale di 2019, nei confronti della Cina: qualche timida parola di sostegno alle critiche ufficiali della UE contro il gigante asiatico, contro la repressione dei diritti e la brutta storia degli uighuri; ma soprattutto arrivano norme stringenti sul futuro ruolo di Huawei nella rete 5G italiana.

Tutto questo accompagna una rallentata o assente implementazione dei nuovi progetti individuati nel MoU, come ad esempio la prevista collaborazione tra la società statale China Communications Contruction Co. e i porti di Genova e Trieste. Un grande accordo e nessuno che abbia voglia, tempo e soldi per realizzarne i contenuti.

Sempre colpa del Covid-19

La spallata più forte arriva dalla crisi sanitaria da coronavirus, che stravolge tutti gli equilibri internazionali. Certo, a primo impatto è evidente che i progetti comuni restano fermi perché mancano i soldi: la crisi assorbe tutte le risorse economiche dell’Italia e ha un forte impatto su quelle cinesi, spostando di fatto il focus primario degli investimenti.

Ma un ruolo importante lo svolge la UE che si ricorda improvvisamente di essere al servizio degli Stati e non viceversa. La creazione del Recovery Fund, di cui l’Italia è il principale beneficiario, riduce la dipendenza percepita da altre fonti di investimenti, lascia al nostro Paese un maggior distacco con cui guardare agli accordi coi cinesi – divenuti nel frattempo un nemico a tutte le latitudini, incolpati dal mondo intero per la pandemia.

Mario, l’acchiappa-dragone

Nel gennaio 2021 arriva il governo subito etichettato “dei bravi”, che sono competenti ma azzeccano anche le altre accezioni di coraggiosi ed efficaci. Forse pure quella di manzoniana memoria, a voler essere cattivi, visto l’indiscutibile allineamento del nuovo Premier alle logiche atlantiche (in chiave anti-cinese) e la sua fedeltà assoluta alle istituzioni europee.

Nel suo intervento all’ultimo G7 di pochi mesi fa, Draghi si fa più esplicito: dichiara che intende valutare attentamente la partecipazione dell’Italia alla Belt and Road Initiative e fornisce a più riprese il proprio appoggio all’idea di un’alternativa tutta Europea alla BRI.

Una netta virata rispetto al passato, che non si esaurisce nelle parole e nelle intenzioni. Durante il 2021 Draghi aveva già fatto ricorso al potere di veto (il cosiddetto Golden Power) del Governo per evitare la vendita di asset strategici all’estero.

In nove anni era stato invocato due volte, in un caso per un acquirente cinese, mentre solo nell’anno in corso ci sono stati ben tre situazioni – e tutte contro possibili scalate cinesi.

Golden Power, silicio e peperoncino

A tutela della Patria contro le speculazioni prevedibili di ogni crisi economica, il Governo anticipa le mosse del nemico, estendendo l’elenco dei settori strategici protetti dal Golden Power alle infrastrutture strategiche (tra cui acqua, sanità, banche), alle tecnologie (5G, fintech, traffico dati e informazione).

Il presentimento del finanziere di lungo corso si realizza e nel 2021 il veto viene utilizzato per bloccare l’acquisizione cinese di due aziende italiane di medie dimensioni operative nel ramo dei semiconduttori (LPE e Applied Materials), un settore di punta per il governo Draghi, che vi dedica una buona quota di fondi europei.

Dicono esista, sotto traccia, un progetto per attrarre investitori creando in Italia un hub di produzione europeo, come sembrano testimoniare i serrati contatti del ministero con il colosso americano Intel. Nessuno conferma e nessuno smentisce, ma sarebbe un progetto interessante per la crescita del nostro Paese e per l’occupazione giovanile.

Ai cinesi resta il riso

Il terzo caso di Golden Power è molto più romantico e merita una menzione speciale, perché non di solo denaro vive l’uomo. Draghi ha infatti impedito l’acquisizione di Verisem, una piccola multinazionale romagnola nel settore delle sementi per frutta e verdura, da parte della cinese Syngenta che era pronta a pagare un prezzo impossibile per gli altri contendenti (si dice un terzo più della seconda offerta migliore).

Il timore di Coldiretti per un uso improprio di quello che è un vero e proprio archivio storico delle sementi italiane ha indotto il ministero a riconsiderare il piano originario, fatto dei soliti impegni a non smantellare la sede italiana e qualche blabla sulla concorrenza leale. Insomma, niente semi italiani con cui creare dei “falsi veri” dal sapore mediterraneo ma prodotti all’ombra delle centrali a carbone riattivate in barba agli accordi sul clima.

E se domani…?

La possibilità che Draghi salga di grado nella gerarchia istituzionale italiana non è remota come molti pensano. Però, anche succedesse, confidiamo che non lascerebbe il Paese nell’instabilità politica, che insomma si andrebbe avanti con un Draghetto (un film il cui protagonista è tutto da individuare, almeno per noi che guardiamo da fuori).

Gli analisti internazionali confermano i rating e non si aspettano elezioni anticipate, convinti che le basi dell’attuale governo siano forti. Possiamo aggiungere che le vediamo talmente radicate nei miliardi della UE da scongiurare una pur possibile crisi di governo. Ma questa è l’Italia e si è visto nei secoli come non sempre siamo in grado di prendere la decisione giusta.

Qualsiasi testa sia a Palazzo Chigi o al Quirinale, un rivampare dell’amor cinese sembra improbabile, alla luce del ruolo ormai marginale dei Cinque Stelle, unici alleati rimasti dopo che perfino Salvini – sostenitore a suo tempo del Memorandum BRI – ha appoggiato con forza le scelte di Draghi sui veti e dichiarato che, se fosse lui il Primo Ministro, addirittura interromperebbe subito le relazioni con la Cina. Speriamo di non doverci trovare mai nella situazione di “chiamargli” l’ennesimo bluff.

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