Sic transit gloria mundi è un monologo scritto e diretto da Alberto Rizzi per Ippogrifo Produzioni. A cinque anni dal suo debutto al Teatro Camploy, lo spettacolo torna in scena a Verona, all’interno della rassegna L’Altro Teatro, da martedì 23 novembre, dopo circa cento repliche in tutta Italia e un bagaglio di premi di tutto rispetto. In scena la protagonista è Chiara Mascalzoni, che racconta l’immaginaria elezione di una donna a Papessa: un’occasione per riflettere sulla condizione della donna nel mondo occidentale e sulla sua esclusione da ruoli pubblici e istituzionali. Per inquadrare l’opera e capire da che cosa abbia avuto origine e quale messaggio voglia trasmettere, abbiamo parlato direttamente con Andrea Rizzi e Chiara Mascalzoni.

Alberto, Sic transit gloria mundi è un monologo che inscena, in un ipotetico futuro, l’elezione di una donna a Papessa. Come e in quale momento è nato lo spettacolo? Da dove nascono il desiderio e la necessità di raccontare questa vicenda?

«L’idea è nata in realtà da una mia battuta a una riunione, in cui sostenevo che per una donna fosse addirittura più facile diventare Papa piuttosto che Presidente della Repubblica, perché non c’è un vero divieto all’interno delle istituzioni ecclesiastiche affinché una donna diventi Papessa. L’idea ha subito suscitato fervore, è sembrata interessante e da questo è nata la proposta di parlare della condizione femminile da questa prospettiva. Il progetto iniziale, infatti, non era tanto quello di parlare della storia della Chiesa, ma di usare anzi la storia della Chiesa come pretesto per discutere della condizione della donna. Da qui ha avuto origine il monologo, il primo in effetti a cui abbiamo lavorato e che ha portato molto favore e successo, anche e soprattutto grazie all’interpretazione di Chiara.»

Quale impegno, in termini di tempo, ti hanno portato lo studio e la preparazione per realizzare questo spettacolo?

«Tra studio, scrittura, prove e messa in scena lo spettacolo ha impiegato circa due anni a formarsi. Lo studio è stato impegnativo e molto accurato (“e le prove anche”, aggiunge Chiara!, ndr). Lo spettacolo contiene comunque una parte storiografica e scientifica importante, che doveva essere inattaccabile proprio dal punto di vista storico e da quello teologico. È quindi servito uno studio specifico sulla storia del Papato e, al suo interno, sull’elezione del Pontefice e su tutti i meccanismi che la regolano. Tutto quello che raccontiamo è comunque anche riconosciuto dalla Chiesa.»

A questo proposito, ci sono state reazioni, positive o negative, da parte della Chiesa alla rappresentazione del vostro spettacolo?

Alberto Rizzi

«Il pubblico è sia laico sia cattolico sia ateo. Non c’è stata una reazione unica e, anzi, la Chiesa cattolica non si è mai esposta nello specifico. Sono venuti, comunque, ad assistere allo spettacolo diversi sacerdoti, insegnanti di religione e in generale persone di chiesa e molte repliche sono state fatte anche in teatri gestiti da sacerdoti. Alcuni l’hanno accolto con molto favore. Benché laici, noi non volevamo creare polemica o attaccare qualcosa o qualcuno, anzi… abbiamo sempre cercato di essere sempre il più possibile rispettosi della sensibilità altrui. Alcune reazioni di polemica ci sono effettivamente state ma solo da parte di persone che non hanno assistito allo spettacolo e che quindi – come si suol dire in questi casi – lasciano il tempo che trovano.»

Sic transit gloria mundi nasce nel 2016 e fa il giro di numerosi teatri in tutta Italia. Quali sono state le reazioni del pubblico? E nello specifico, qual è stata la reazione di Verona alle rappresentazioni dello spettacolo?

«La reazione è stata positiva, sono stati tutti molto soddisfatti e affettuosi, tanto che molte persone sono tornate a vedere lo spettacolo per la quarta o la quinta volta. Dura circa un’ora ed è un’ora molto intensa, in cui si trasmettono molte informazioni e probabilmente lo spettatore rimane travolto e alla prima rappresentazione non riesce a cogliere tutto, quindi torna forse per comprendere meglio alcuni passaggi dello spettacolo. Un particolare divertente, che non ci si è mai presentato per altri spettacoli, è stata la nascita di un vero e proprio fan club de la Papessa: le persone ci scrivono per conoscere le prossime repliche, si informa e ritorna. »

Qual è il pubblico in genere che assiste allo spettacolo della Papessa?

«È un pubblico assolutamente eterogeneo: dagli adolescenti, alle famiglie, ai signori più anziani. Potremmo quasi dire che la Papessa ha creato un pubblico tutto suo.»

Qual è il messaggio che Sic transit gloria mundi vuole trasmettere? La donna nel corso della storia è sempre stata relegata a ruoli di second’ordine all’interno delle grandi istituzioni, tra le quali la chiesa. È possibile un cambio radicale di visione che possa portare la donna a dei ruoli di comando?

Chiara Mascalzoni in “Sic transit gloria mundi”

«Il nostro lavoro significa anche essere profetici, vedere mondi che non esistono e immaginarli. Ma questi mondi non esistono solo a causa dei nostri pregiudizi. Oggi parliamo ad esempio dell’elezione del futuro Presidente della Repubblica ed è facile notare, fra i papabili, la totale assenza di nomi di donne; sono stati nominati, anzi, uomini che non potrebbero nemmeno essere candidabili per questioni legali ma non c’è alcuna traccia di donne. Quello che volevamo provocare con Sic transit gloria mundi è una semplice domanda: volevamo che le persone uscissero da teatro e si chiedessero sinceramente “Perché non una donna papessa?” e in effetti alla fine dello spettacolo lo spettatore vede una donna in scena, vestita da Papa, e non lo trova strano. Dopo un’ora di spettacolo sembra credibile. Il problema quindi non è il fatto in sé, ma solo il pregiudizio che ne abbiamo. Il nostro obiettivo era trasmettere, insomma, una nuova visione del mondo.»

Al centro dello spettacolo è narrata in qualche modo una battaglia per la parità dei diritti. Quanto è importante parlare di parità dei sessi oggi e quanto il teatro può influire in questo cambio di visione?

«Elemento centrale del nostro lavoro è creare e, al contempo, offrire alle persone una differente visione del mondo. Se la realtà che osserva lo spettatore a teatro è la stessa del mondo esterno, allora che senso potrebbe avere ciò che facciamo? Non avrebbe più ragion d’essere. Per fortuna poi, in questo momento storico, molte nostre colleghe stanno già affrontando la questione all’interno del nostro settore lavorativo, un settore che ha sempre sofferto un po’ di maschilismo: i ruoli di potere sono sempre stati rivestiti da uomini ma ora fortunatamente le cose si stanno riequilibrando, sia per quanto riguarda i ruoli di attrici sia per quanto riguarda le figure di autrici, registe, produttrici. C’è un gap, comunque, ancora evidente ma ci stiamo muovendo verso una nuova direzione. Certo, chi lavora nel mondo dello spettacolo è comunque molto più esposto rispetto ad altre professioni e prova ne è stata il movimento MeToo, quasi esclusivamente legato al mondo del cinema e dello spettacolo. Mi è capitato di recente di leggere che uno degli ambienti più molestanti in Italia è quello dell’università, ma ciò che differenzia i docenti dagli attori o dai registi è la loro minore esposizione. La diretta conseguenza è, comunque, il pensiero che il mondo dello spettacolo sia più corrotto rispetto ad altri. In questo senso, mi è parecchio dispiaciuto che il movimento MeToo non abbia abbracciato anche altri ambiti.»

Chiara, tu sei il centro dello spettacolo. Chi è la Papessa e quali sono i suoi caratteri distintivi?

«Noi abbiamo preso la figura della Papessa come metafora. Durante lo spettacolo sono io, in qualità di narratore, a raccontare la figura della donna: racconto diversi episodi e divento molti personaggi diversi, divento Papa, divento vescovo. La figura della Papessa rimane una figura simbolica e per la sua rappresentazione è stata scelta una donna “normale”, per evitare quella retorica secondo cui l’eccezione – l’elezione di una donna a Papessa, quindi – si possa verificare solo per donne eccezionali. Alle donne viene spesso chiesto di essere eccezionali per poter ricoprire un ruolo, cosa che non viene chiesta agli uomini. Quando parliamo, ad esempio, della storia del femminismo, ci troviamo sempre a citare dei personaggi importanti, eccezionali, che però sono tali proprio perché si sono trovati a superare un gap, faticando il doppio rispetto a un uomo. Va eliminata l’eccezionalità, la particolarità, per arrivare ad una situazione di uguaglianza. Questo ci è sembrato importante e questo è il motivo per cui abbiamo raccontato di una donna qualsiasi, quasi banale, che viene eletta Papessa.»

Che cosa hanno comportato la preparazione e lo studio per lo spettacolo Sic transit gloria mundi? Quali emozioni ti ha suscitato questa interpretazione? Che cosa hai imparato da lei?

«Lo spettacolo dura solo un’ora ma per me è come se ne durasse dieci! Divento tanti personaggi, da quello che più disprezzo a quello che più amo e ammiro, cioè la Papessa Elisabetta I. Da ognuno di questi apprendo qualcosa, anche dai più beceri. Dalla mia Papessa ho sicuramente appreso il grande messaggio d’amore che lei vuole trasmettere a tutti e che mi commuove ogni volta. »

Che apporto personale hai aggiunto nell’interpretazione della Papessa?

«Potrei riassumerlo in tre parole: fiato, passione e divertimento. Questo spettacolo è stato per me, come attrice, una grande occasione perché mi permette di essere tutto ciò che vorrei essere in scena: posso essere me stessa e, al contempo, altri mille personaggi.»

Alberto, quando hai scritto questo testo, lo hai pensato proprio su Chiara?

«Sì, assolutamente. Abbiamo comunque proceduto con una scrittura condivisa, ma alcune cose le sono state cucite addosso, per così dire. Lo spettacolo è comunque nato su Chiara, che consente di realizzare cose impossibili, o difficili, ad altri attori: oltre ad una grande capacità espressiva e di varietà, ha anche grande capacità fisica e questo ha permesso di scrivere sapendo già che le idee di partenza potevano essere realizzate.»

Il testo ha subito un’evoluzione dalla prima rappresentazione a oggi? Ci sono state modifiche in corso d’opera?

«Ci siamo adeguati, naturalmente, al tempo che passava ma non ci sono stati aggiornamenti consistenti. alcune cose erano destinate a cristallizzarsi, come spesso accade, e questo accade non perché il testo sia una sorta di Vangelo, ma perché è talmente legato ai gesti, alle luci, alle musiche, alla scena che si prospetta un margine minimo per i cambiamenti: ogni elemento fa parte dell’insieme. La parte che deve però rimanere più viva è quella scientifica, che viene aggiornata per essere storiograficamente coerenti.»

Di recente, Alberto, hai diretto il lungometraggio “Si muore solo da vivi” (prodotto dalla veronese Kplus) che ha visto fra gli attori anche Chiara. L’esperienza del lungometraggio ha aggiunto qualcosa al vostro modo di lavorare nel teatro?

«In realtà da allora non abbiamo più lavorato insieme. Abbiamo degli spettacoli pronti per essere messi in scena e stiamo lavorando a nuovi progetti. In generale, possiamo dire che vige una regola ad Ippogrifo: ci scegliamo a vicenda tutte le volte. Per ogni spettacolo viene fatto il cast e nessuno viene mai selezionato solo perché è qui, e ciò consente di garantire sia l’attore sia la qualità del risultato che produciamo. Benché lavoriamo insieme da 13 anni, ogni volta ricominciamo da capo, cambiamo il modo in cui lo spettacolo viene allestito e cerchiamo di non compiere mai lo stesso percorso. Ogni spettacolo ha le sue regole e ciò ci consente di rinnovarci come attori e di ricodificarci ogni volta.»

Alberto, per finire, di recente è emerso che la Cultura è fanalino di coda all’interno dei finanziamenti della Regione Veneto, al contrario di quanto avviene in altre parti d’Italia. Che cosa ne pensi?

«A livello politico a noi ciò non apporta cambiamenti, perché Ippogrifo Produzioni non riceve fondi pubblici. Tuttavia, sia in qualità di operatore del settore sia in qualità di cittadino, sono molto dispiaciuto che la nostra Regione investa €3,50 a cittadino per la cultura, di cui €1 per il mondo dello spettacolo.  Sono cifre basse non solo in senso assoluto, ma sono tre o in qualche caso addirittura dieci volte più basse rispetto alle regioni che ci circondano e, soprattutto, sono la dimostrazione che manca totalmente una visione culturale della Regione Veneto. Proveniamo da due anni di pandemia, in cui il turismo e la cultura sono stati i due settori in assoluto più colpiti: proprio a questi dovrebbero essere destinati i fondi più consistenti. Questo risultato è sicuramente frutto di una visione in cui la cultura è un semplice accessorio, preceduto sempre da altre priorità. Ma chi pensa che le priorità siano altre sta già commettendo un errore. Se pensiamo all’Atene del V secolo a.C., all’Inghilterra elisabettiana, alla Firenze rinascimentale dei Medici, riconosciamo che Pericle, la regina Elisabetta, i Medici erano essi stessi persone di cultura e hanno pensato giustamente di attirare verso di sé le grandi menti e i grandi artisti. Sono partiti dalla cultura, dimostrando che cultura e successo economico procedono a braccetto, contrariamente all’idea più diffusa oggi che immagina invece che la cultura debba per necessità venire solo dopo un eventuale successo economico.»

Il monologo di Ippogrifo Produzioni riprende dunque, dopo due stagioni interrotte dalle restrizioni per il contenimento della pandemia, e andrà in scena martedì 23 novembre alle 20.45 presso il Teatro Camploy di Verona. È consigliata la prenotazione via mail (scrivendo a biglietteriaippogrifo@mail.com) o via WhatsApp (scrivendo a 349 6625771).

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