L’amore per il teatro lo devo tutto a mia mamma. La prima volta fu al Teatro Romano di Verona, assistemmo a La XII notte di Shakespeare. Avevo 8 anni. Ricordo poi un giorno in cui mi fece sedere sul divano e infilò nel lettore una videocassetta (era ancora il loro momento), un cofanetto bianco e come unica immagine la faccia di un uomo in un angolo. Mi avvertì che stavo per assistere a qualcosa di straordinario. «Non cercare di capire tutto, lasciati trasportare».

Era l’edizione Einaudi del Gigi Proietti Show. Fu così che conobbi Pietro Ammicca, Gastone, Er Barcarolo romano, Il vecchietto delle favole, il grande baule magico e quella lingua strana che non si capiva niente ma si capiva tutto, che più tardi capii chiamarsi grammelot.

E risi, risi nonostante ancora non potessi capire ogni cosa. Risi stupita da quella capacità espressiva fuori da comune. Osservai incuriosita le espressioni del volto mutare, camaleontiche quasi a trasformarne la fisionomia. Vedevo un uomo e mille personaggi diversi, vestiti con disinvoltura inaudita. Vidi l’arte, quella vera. E me ne innamorai.

Proietti è stato uno dei motivi per cui ho iniziato a studiare teatro. Più avanti, pasciuta di cultura letteraria e muovendo i primi passi sulle tavole scricchiolanti del palcoscenico, iniziai davvero a capire la portata della sua operazione artistica e culturale. E mi fu subito chiaro che quell’uomo era riuscito in qualcosa di straordinario: comunicare a tutti, saliscendere lungo i gradini gerarchici della cultura, riportando la commedia alla sua quintessenza.

Popolare, davvero. Perché “del popolo”. Proietti sapeva passare da Shakespeare al Maresciallo Rocca con la disinvoltura che solo un grande attore può avere. Multiforme: è il genio della lampada in Aladdin e il direttore artistico del Globe Theatre di Roma. Proietti è il teatro.

E il teatro non è mai elitario. Non si chiude in qualche lontano stigma altoborghese. Il teatro è contaminazione, sperimentazione, quotidianità. Il teatro è la realtà esagerata e caricaturizzata: quanto era abile in questo Proietti. Il teatro è risata e pensiero: sempre intrinsecamente uniti, mai fini a se stessi. Questo e molto altro facevano parte dell’opera artistica di Gigi, Luigi all’anagrafe.

Quel che resta oggi, ai piedi di una scena vuota e buia, è il malessere di un sipario che cala senza replica. Perché sarà grande la celebrazione della sua bravura, tutti lo chiameranno Maestro nei prossimi giorni. Eppure nel frattempo la grande contraddizione è che noi siamo qui, chiusi nelle nostre case, con i teatri ancora chiusi nonostante forse sia proprio adesso il momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Per sorridere amaramente di questa realtà sempre meno gioiosa, per cercare la speranza mentre si fa più fatica a vederla.

Gigi Proietti davanti al pubblico del Silvano Toti Globe Theatre, foto dalla pagina Facebook del teatro

Il suo teatro (il Silvano Toti Globe Theatre, che ricostruisce a Roma, a Villa Borghese, il Globe theatre di Londra, di cui è stato direttore artistico, ndr) è serrato, come tutti i teatri d’Italia. Ma non è questo il momento della polemica culturale. Per ora voglio ricordare che recitare non è solo “intrattenere” nel tempo libero. Non è solo giocare. Recitare significa creare sogni e donarli anche a chi non ne ha più. Significa spogliarsi del proprio individualismo e donare agli altri i propri mille volti, che poi sono i mille volti dell’essere umano. Recitare è gioia e dolore, e Proietti lo sapeva benissimo.

Quel che vorrei restasse, al di là di tutto questo e del clamore di massa, è nelle parole di Roberto Lerci, recitate da Proietti in “A me gli occhi please“:

Ma quell’amore, che era una certezza, si è assopito con l’ultima carezza.

Ha ripiegato pian piano le sue foglie, rinunciando per ora alle sue voglie.

L’anima mia per questo si è ammalata, non sogna più, e resta addormentata.

Prima che il vuoto tutto ci divori, che venga, venga presto il tempo in cui ci si innamori.