Due allenatori con al collo l’oro olimpico di Tokio, due ex atleti, due americani dal vissuto che, per raccontarlo in una biografia, non basterebbe un singolo volume, tante sono le epoche che hanno attraversato, infinite le competizioni vinte e, occasionalmente, perse. A Karch Kiraly e Gregg Popovich non serviva quest’ultimo alloro per consacrarsi tra le personalità di maggior spicco della storia sportiva in assoluto, non solo nella loro disciplina. Quest’ultima rassegna olimpica, però, ce li ha proposti insieme, in una coincidenza temporale magistrale a livello mediatico ed evocativo. Ancora una volta in alto, ancora una volta ai massimi livelli sportivi. L’uno al fianco dell’altro, l’uno a prendersi gloria e copertine un giorno, l’altro subito dopo. Come se un filo collegasse le loro storie, anche se le vite sportive e professionali non possano certo dirsi simili.
Di loro si è detto tanto in queste settimane. Diventa inutile ribadire ed elencare il rispettivo palmares. Hanno conquistato ogni alloro possibile, tutto ciò che un essere umano possa vincere. Lo hanno fatto assumendo ruoli diversi, in periodi storici distanti. Lo hanno fatto impattando sulle organizzazioni che hanno condotto con una leadership e un carisma fuori dal comune, senza mai sacrificare le proprie idee, senza mai rinunciare a dichiarazioni talvolta pesanti e divisive. Diversi nel carattere, ma uniti da un’incredibile fame di perfezionismo, guidati dalla volontà di costruire squadre, organizzazioni e progetti capaci di formare generazioni di atleti, allenatori, incidendo in modo incredibile nelle vite di chi li ha incontrati e lavorato con loro. Per entrambi parlano i risultati, certo, ma dalle sole performance si evince unicamente la punta dell’iceberg del loro lavoro e delle loro qualità umane e professionali. Non si sono mai accontentati di vincere, ma hanno lavorato soprattutto per costruire le condizioni che possono portare al successo.

Gregg Popovich, attuale coach della Nazionale di basket degli Stati Uniti

Due maestri

Kiraly e Popovich possono essere considerati senza ombra di dubbio dei maestri e rappresentano il manifesto per eccellenza di questo concetto, a volte troppo abusato, quasi mai utilizzato in ambito sportivo per definire non solo chi ha vinto tanto, ma chi è stato soprattutto un esempio per gli altri, influenzandone positivamente le carriere. Non sono solo dei vincenti, ma hanno fatto vincere le persone che negli anni hanno incontrato. Due esempi su questo: Kiraly con il beach volley ha vinto tornei con 13 compagni diversi, risultato difficilmente raggiungibile da chiunque, mentre in NBA sono ci sono 15 allenatori e dirigenti, in passato assistenti e allievi di Popovich.

Sarebbero emersi anche in Italia?

Ci si chiede se simili individualità sarebbero potute emergere anche nel contesto sportivo italiano. Certo, la domanda non può trovare risposta condivisa e provata, ma ritengo sicuramente di NO, l’Italia non sarebbe stata in grado di favorire lo sviluppo di tale tipologia di personalità. Non avrebbe potuto nel passato e non può farlo tutt’ora. Tuttavia, occorre chiarire che la nostra è una delle principali scuole per allenatori di tantissime discipline sportive, tra le quali figura di sicuro la pallavolo. Pertanto, con questo non si vuole affermare da noi non si sappia produrre buoni allenatori, affatto. Semmai è il contrario, la cosa riesce bene per per attitudini e caratteristiche.

La questione che poniamo, però, è più articolata. Popovich e Kiraly rappresentano un modello culturale e sportivo tipico della società americana. Ognuno a suo modo, con le proprie caratteristiche ma sempre distanti dal modello italiano. Entrambi, attraverso la classica “gavetta”, hanno conquistato le credenziali giuste, arrivando a ottenere pieno mandato e delega per impostare la propria personale progettualità. Kiraly nella pallavolo con la Nazionale Usa femminile e Popovich nel basket con i San Antonio Spurs e la Nazionale, hanno avuto tempo di crescere. Hanno potuto sbagliare e scegliere, e lo hanno fatto mettendoci sempre la faccia, ma con la piena libertà di essere loro stessi, senza essere servi di qualcuno o qualcosa, senza mai dover scendere a compromessi forti, tali da pregiudicare i propri obiettivi o la filosofia utilizzata nella costruzione delle rispettive squadre. Nel tempo, dunque, hanno potuto esercitare con coerenza il proprio ruolo, senza essere giubilati al primo errore. Tale coerenza ha permesso a entrambi di guadagnare consenso, fiducia e autorevolezza, elementi necessari per formare e condurre organizzazioni importanti. Hanno dato tutto, la loro vita e la loro professionalità, mettendosi in gioco in ogni istante della loro esistenza. Ma hanno ricevuto delega e meritato credito che hanno permesso a Gregg di diventare il “Popovich” guru della pallacanestro e a Karch di essere il “Kiraly” altrettanto osannato del volley e del beach volley.

In Italia, viceversa, non siamo ancora capaci di portare avanti questo tipo di approccio. Da noi i progetti nascono, si modificano, si rettificano o si rivoluzionano al primo intoppo. Gli allenatori non hanno il tempo di costruire, di formare, di plasmare realtà in cui si stabiliscono per poco, magari per una sola stagione sportiva. In Italia si è pronti a glorificare atleti e allenatori ai primi successi, ma li si demolisce al primo fallimento o al primo errore. La nostra cultura non prevede insuccesso o difficoltà, conta solo il vincere. Far apprezzare ciò che si costruisce giorno per giorno, ottenendo i risultati con il tempo, è decisamente molto più complicato. Anche in ambito sportivo l’emergenza viene da noi vissuta come la normalità, intravedendo raramente quando il risultato è figlio della programmazione e non estemporaneo e casuale.

Per Kiraly, in nazionale dal 2009, e Popovich, head coach dal 1996, comprendiamo quanto il tempo loro concesso abbia giovato alle rispettive carriere. In Italia difficilmente poteva succedere la stessa cosa. Il primo – che esegue le flessioni durante i time out delle partite che osserva, con lo scopo di mantenere attivi fisico e mente – e il secondo – che a settantadue anni effettua in palestra i “suicidi” per dimostrare che staff e squadra hanno medesimi oneri e onori – sono entrambi due maestri, esempi viventi i di una cultura sportiva che da noi siamo capaci di ammirare solo quando porta la successo, senza avere la pazienza di tentare di imitarla. E questo, forse, è dovuto al fatto che, contrariamente alla società americana, abbiamo dimenticato quanto sia importante nel sano sviluppo di un Paese, l’alleanza tra maestro e allievo. Non solo nello sport.

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