Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha preso una netta posizione nei confronti dell’Ungheria, a causa della discussa legge che intende vietare la divulgazione ai minorenni di “pornografia e contenuti che raffigurano la sessualità fine a se stessa o che promuovono la deviazione dall’identità di genere, il cambiamento di genere e l’omosessualità”. Si tratta di un progetto legislativo che ha subito attirato l’attenzione dell’Europa liberale, preoccupata che la deriva intrapresa da Ungheria (e Polonia) contro i diritti civili non possa essere contenuta in alcun modo.

Von der Leyen riporta alla plenaria del Parlamento europeo di una «”discussione molto personale ed emotiva” sulla legge ungherese (in sede di Consiglio UE, NdA) in cui si arriva a determinare che tale provvedimento di fatto pone l’omosessualità al livello di pornografia e pedofilia.

«Questa legge non serve alla protezione dei bambini – afferma, in risposta alle dichiarazioni di Orban stesso – è un pretesto per discriminare. Questa legge è una vergogna

Aggiunge poi che la Commissione intende usare i poteri ad essa conferiti in qualità di garante dei trattati.

«Non possiamo restare a guardare – conclude – non lasceremo mai che parte della nostra società sia stigmatizzata. Non dimentichiamo che quando difendiamo parti della nostra società noi difendiamo la libertà di tutta la nostra società.»

La contesa si apre ufficialmente, insomma, dopo che 16 Paesi avevano chiesto alla Commissione di passare all’azione, in una dichiarazione congiunta firmata anche dall’Italia, seppur in un momento successivo alla presentazione ufficiale.

Con tutta probabilità la Commissione inizierà l’iter per la procedura di infrazione; nel caso di una legge in itinere, viene inviata una lettera – a cura del Commissario alla Giustizia e quello agli Affari Interni UE – in cui si esprimono preoccupazioni e suggerimenti.

Se l’Ungheria procede comunque a votare la legge, la UE può bloccarne l’implementazione attivando la procedura citata che, in caso di mancato adempimento, porta la questione alla Corte di Giustizia, con penali anche economiche.

Che forse sono già iniziate, almeno come spettro accennato, visto il blocco deciso alle erogazioni del Recovery Fund all’Ungheria, ufficialmente per non aver fornito sufficienti dettagli sul loro utilizzo.

Il Primo Ministro magiaro ha replicato che l’Unione non dovrebbe interferire su una decisione politica nazionale parlando addirittura di “sovietizzazione della UE”. Ancora. In Ungheria come in Polonia, ogni volta che si vuol indirizzare l’opinione pubblica, si sventolano due argomenti, a seconda di quale sia più appropriato: l’immigrazione selvaggia e il Comunismo. Proviamo ad analizzare come i due Paesi – entrambi fortemente europeisti – si stiano trasformando in conservatori illiberali. Come sempre ci aiutano i fatti storici.

Viktor Orban

Nel 1992 il thinktank di cooperazione transatlantica German Marshall Fund finanzia il viaggio culturale di una serie di giovani europei dell’Est, portandoli a spasso per gli USA a conoscere la vera democrazia.

Partecipano, tra gli altri, la polacca Małgorzata Bochenek e il nostro Viktor Orban, reduce dagli studi a Oxford finanziati dalla Soros Foundation (con buona pace dei populisti italiani che ne fanno un idolo).

Entrambi sono all’apparenza più interessati alla tecnologia occidentale che alle storie di battaglie sociali per i diritti e l’uguaglianza, ma l’embrione della politica si insinua in loro, tanto che li ritroviamo dopo qualche anno ben inseriti: Bochenek è consigliera personale di Kaczyński, fondatore del partito nazionalista polacco Diritto e Giustizia (45% dei voti alle ultime elezioni) e Orban addirittura primo ministro in Ungheria con il suo Fidesz che vanta due terzi dei seggi in Parlamento.

I fratelli Kaczyński e Orban si trovano a seguire uno schema molto simile: installano nei ruoli chiave giudici e giornalisti vicini al partito, eliminano gli esponenti di sinistra dalle università e dalle ONG, violano poi la Carta europea dei Diritti in più occasioni (in tema di aborto o diritti gay/trans).

Negli anni la UE ha iniziato diverse procedure di richiamo per entrambi i Governi, alle cui conseguenze reali si sono sempre sottratti grazie al veto reciproco sulla delibera parlamentare, bloccando di fatto ogni tentativo di riportarli nell’alveo dei diritti civili e dello stato di diritto.

La cosa strana è che in questi stessi Paesi quattro cittadini su cinque si dichiarano a favore dell’Europa, in un anomalo equilibrismo tra identità e comunità. A differenza del caso inglese con Brexit, questi Stati non vogliono indipendenza, non vogliono lasciare la UE. Vogliono autonomia, ma dall’interno del gruppo.

E il motivo è sempre quello che muove davvero gli animi innocenti della Politica: il denaro – che da anni scorre copioso dalle casse europee verso i Paesi in transizione dal comunismo.

Fondi che in molte occasioni sono stati utilizzati per coltivare (nel senso di sovvenzionare) una élite borghese di sostenitori del partito di Governo, anziché produrre effetti visibili sulla vita dei cittadini.

Purtroppo, la UE ha un meccanismo di erogazione obsoleto e inefficiente, in cui gli accordi di lungo termine non possono essere intaccati da problematiche contingenti e risulta quasi impossibile ottenere conferma sull’uso reale dei fondi. Si calcola che tra il 2007 e il 2020 il blocco orientale abbia ricevuto circa 400 miliardi di euro, metà dei quali proprio a Polonia e Ungheria, nonostante i richiami e le proteste ufficiali.

Diversi storici imputano ai processi migratori che hanno interessato tutti i Paesi oltre cortina la causa del ritorno al nazionalismo, visto il forte legame tra denatalità, emigrazione e il terrore della sostituzione etnica da parte dei nuovi migranti.

Ci sembra opinabile, visto che nazioni come Lituania, Croazia e Romania, che hanno negli anni perso circa un quinto della popolazione, sono rimaste fedeli al modello liberale, mentre il nazionalismo è sbocciato proprio nelle due meno colpite dal fenomeno.

Ricordiamo poi che nonostante il sentimento anti-immigrazione sia elemento comune dell’intera Unione, solo il Regno Unito se ne è separato e solo Ungheria e Polonia hanno rinnegato i suoi valori fondativi, addirittura attaccando la società civile e la magistratura.

Ursula Von der Leyen

Forse Polonia e Ungheria si sentono in dovere di creare una rottura più profonda dal passato, di essere investiti di un compito da portare a termine: la creazione di una nuova forma di democrazia revisionista, conservatrice e discriminatoria.

A partire dal 1989, hanno tenuto un comportamento bipolare, aprendosi alle nuove idee economiche e al libero mercato ma, allo stesso tempo, riconoscendosi in un’identità Europea e cristiana che ha posto le basi per la deriva illiberale dei giorni nostri.

Contro l’idea imperante che la pandemia possa portare a un processo di de-globalizzazione e isolazionismo, l’esempio di Polonia e Ungheria sembra quindi indicare un’altra soluzione: una sorta di nazionalismo chiuso sotto il profilo politico ma felicemente inserito in un’economia aperta. La globalizzazione senza i globalisti, insomma e chissà se Soros si sarà mai pentito di quella borsa di studio.

Quotiamo di nuovo, per finire, Ursula von der Leyen che orgogliosamente dichiara: «Credo fermamente in un’Unione Europea (…) dove si è liberi di amare chi si vuole e credo in un’Unione Europea che sostiene e incoraggia la diversità come un valore. Farò tutto quanto nei poteri della Commissione affinché i diritti di tutti i cittadini UE siano garantiti, ovunque essi risiedano». Vai, Ursula, fagli un goulasch così.

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