Non può essere diversamente. Solo qualcuno che non ama e non rispetta il calcio può uscirsene con un’idea come la SuperLeague, dove obiettivamente lo sport praticato sarà il calcio, ma niente della sua anima verrà trasferito sul campo. Si tratta di un campionato di eletti, che si sono autoproclamati tali, in forza della loro dimensione e del blasone; giocheranno – nelle intenzioni – partite aggiuntive rispetto ai campionati nazionali e a quelli europei, in una sorta di ubriacante turbinio di match ogni due giorni, in cui sarà difficile orientarsi o trovare un senso.

Solo chi odia il calcio si può inventare una forzatura di questo tipo. I tifosi sono quelli che – bestie sempre più rare – allo stadio ci vanno fisicamente, che urlano in una curva piena di amici anche sconosciuti ma sempre “nostri”; gli ultras, ma anche i tifosi meno scatenati, credono al merito, alla possibilità di vincere applicando dedizione e sforzo, sanno bene che battere i colossi non sarà facile, ma anche che niente è impossibile. E questi zitti zitti provano a cancellare questo calcio. Vogliono smembrarlo e tradurlo in un lungo reality show, sicuramente un format vendibile in tutto il mondo, in tutti i Paesi dove i loro fans da divano risiedono, dalla Cina all’Australia, dagli Stati Uniti alla Russia. I fondatori di questo esclusivo country club pedatorio sembrano trovare quasi offensivo che il calcio sia uno sport competitivo, dove tutti hanno le stesse possibilità e ci si deve guadagnare sul campo la vittoria e la “promozione”, che sia al massimo campionato nazionale o alle competizioni europee.

È chiaro che si tratta di club che hanno una struttura societaria particolare, quotati in borsa, dove già oggi vedono i risultati positivi di un comunicato del genere. Il loro è un altro sport rispetto a quello che amano i tifosi veri: si tratta prima di tutto di capitali investiti e il capitale raramente si accontenta di un posto al tavolo, pretende il potere di decidere, anche di farsi proprie regole. Sono di fatto gli stessi club che hanno dimostrato di non saper gestire gli immensi patrimoni a disposizione: vengono alla mente i grossi debiti accumulati dal Barcellona o, in Italia, gli azionisti dell’Inter che iniziano una procedura concorsuale, o la Juventus, il cui presidente Agnelli è tra i promotori dell’iniziativa, che deve trovare un centinaio di milioni entro l’estate per poter stare in piedi.

Non sembra un caso che i soci fondatori ricalchino quasi tutti uno stesso schema: proprietà ricchissima, possibilmente estera, enorme bacino di pubblico oltre i confini cittadini e nazionali, copertura televisiva a livello globale; sono squadre gestite come aziende, da manager che – appare chiaro – non lo sanno fare davvero e che, per salvare i propri bilanci, sono pronti a vendere lo spirito e l’anima di uno sport, a cancellare in un secondo quegli elementi di libera concorrenza e di sportività che ne sono alla radice. Questi sono i geni che vogliono trasformare uno sport in una sfilata di carnevale, attirando i soldi delle tv straniere di tutto il mondo ma perdendo di vista il disgusto provocato nei loro stessi tifosi di casa.

Bello leggere che molti ex allenatori e giocatori si sono espressi in modo anche colorito contro la pazza idea di creare il “circo del pallone”; allo stesso modo, le società di gestione dei campionati e la stessa UEFA hanno minacciato ritorsioni nei confronti dei club e dei giocatori che decideranno di partecipare alla SuperLeague, addirittura escludendoli dalle competizioni internazionali. Alcune squadre nei campionati interessati (per ora Italia, Spagna e Inghilterra) hanno già chiesto formalmente l’esclusione delle squadre fondatrici della nuova lega dai campionati nazionali.

In effetti è molto forte la tentazione di dire “volete la bicicletta? allora pedalate”, di lasciare queste squadre al loro destino e cercare (o ritrovare) una dimensione più umana al campionato italiano. Una dimensione che, anziché puntare a incrementare i ricavi trasformando il calcio in un prodotto “bello come la Multipla”, pensino a razionalizzare i costi, a migliorare il management, a rendere più efficiente la gestione delle società.

Chi va allo stadio, in casa e in trasferta, non è interessato a un prodotto televisivo di dubbia qualità, una specie di “Football Island” dove un gruppo di strani personaggi tirano noiose pedate a un pallone: se non c’è una vittoria vera in palio, se non si rischia di perdere niente, al meglio della nostra immaginazione potranno essere burattini o meglio scimmiette ammaestrate. Prestazioni autocontemplative, piene di hat-tricks e veroniche, un tripudio di tecnica sopraffina ma attenzione, nessun agonismo che “non importa chi vince, rigiochiamo domani” e poi, insomma, le mie tibie valgono milioni di euro, quasi come le tue, stai attento a non farmi male.

Ce lo immaginiamo così il calcio della SuperLeague: un calcio senza calcio e senza voglia di vincere, con goal bellissimi e corse esultanti verso una curva vuota. Eh sì, chi davvero ama il calcio, quelle curve le vuole vedere sempre tristemente vuote. I tifosi del gioco, gli innamorati della propria squadra – e chi scrive si butta entusiasta in questo mucchio – negli anni hanno riempito i gradoni di Legnano e quelli di Marcianise; e sono pronti a rifarlo anche domani, ma non certo per uno show artefatto e addomesticato.

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