«Vogliono rubarci il ‘nostro’ calcio». Quando stamattina ho letto questo titolone sulla versione web del più noto quotidiano sportivo italiano, giuro che avrei voluto cavarmi gli occhi. Un po’ perché sapevo che, scorrendo la home page, avrei trovato l’immancabile sondaggio sui lati B di Diletta e Georgina, ma soprattutto perché questa retorica “romantica” del calcio ha francamente stancato.

Ma come, sono anni che ci lamentiamo del “calcio che ormai è solo business e non c’è più etica“, e ora che i responsabili di questa “disgregazione dei valori” si vogliono riunire per farsi il loro bel giochino dorato, ci stracciamo le vesti per farli rimanere?

Smettiamola con la prostituzione intellettuale sui “bei tempi andati” del calcio. Lo sport professionistico è business da sempre, e come tale si evolve. Non vedo nulla di scandaloso nel fatto che le aziende più grosse del settore vogliano esplorare nuove soluzioni. Nel mondo degli affari funziona così.

Semmai sorrido nel vedere UEFA e federazioni nazionali che, dopo aver speculato e sperperato per anni, ora alzano le barricate in nome dei valori dello sport. Trovando pure la sponda di leader politici pronti per l’occasione. Tutti preoccupati che con questa, per ora solo paventata, SuperLega, anche i loro giocattoli perdano di valore.

Chi sono i responsabili di questa scissione? Dodici club che, chi più chi meno, compongono il gotha del calcio europeo: Juventus, Milan, Inter (per restare tra le italiane), Manchester United, Arsenal, Liverpool, Tottenham, Chelsea, Manchester City, Barcellona, Real Madrid e Atletico Madrid.

Tra le voci da sempre contrarie c’è quella del Bayern Monaco. E ci credo, il modello di calcio tedesco è molto più sostenibile del nostro e hanno dimostrato di poter competere anche così ai massimi livelli. Anche se ci sarebbe poi da discutere sul fatto che, da 15 anni a questa parte, le altre squadre tedesche siano una sorta di vivaio bavarese, dal quale i campioni d’Europa pescano indisturbati. Il PSG per ora tace, d’altronde non può rischiare di infastidire ulteriormente UEFA e FIFA dopo le porcate fatte per avere i mondiali in Qatar. Passati quelli, saranno i primi a volerci giocare in SuperLega. Oppure smobiliteranno tutto.

Sono club che volano a quote altissime e non hanno alcuna intenzione di fare un passo indietro e tornare a giocare solo nel cortile di casa. Sforziamoci di toglierci dagli occhi i veli del romanticismo, e guardiamo in faccia la realtà. Esistono aziende che, dopo essere diventate grandi, accettano di ridurre i fatturati per dare una mano ad altre del settore? No. E il mito della “decrescita felice” per ora rimane, per l’appunto, solo un mito. Perciò, se vogliono creare questa sorta di NBA calcistica, lasciamoglielo fare. Se riusciranno a concretizzare un progetto di show business in grado di sostenere bilanci che bruciano sempre più milioni, bravi loro.

La sede dell’UEFA a Nyon

Che poi, se proprio dovessi scommettere due centesimi sulla questione, oggi li butterei su un accordo finale che garantirà a tutti questi big player maggiori dividendi, aumentando ancor di più il divario tra l’empireo calcistico continentale e gli altri club. Ma, supponiamo invece che la SuperLega si realizzi… bene, lasciamoli andare, e rimettiamo finalmente mano al calcio italiano. Già, perché, esattamente qual è il modello che vorremmo difendere? Un sistema in crisi da anni e ormai insostenibile. Come può essere futuribile un progetto professionistico dove il 97% delle partecipanti non ha ricavi in grado di garantirne l’esistenza e che, senza i soldi dei rispettivi presidenti (che li fanno con altre attività), non avrebbe nemmeno il budget per potersi iscrivere al campionato successivo?

Possiamo accettare che un club di B, ma anche di bassa A, senza i soldi delle TV e di qualche magnate non saprebbe come tirare avanti? Che gran parte della galassia professionistica (quella fuori dai grandi riflettori) agisca con le stesse dinamiche economiche di una squadra di prima categoria, con la differenza che sta solo nel conto in banca dei proprietari e non nelle modalità di gestione?

Sinceramente io sarei stufo di estati passate a fare la conta di club che falliscono, spariscono o vengono ripescati. Altri che a giugno fanno i proclami e poi a metà stagione smettono di pagare, oppure di filibustieri vari che usano il calcio e la passione delle piazze per fini personali. Per informazioni, in questi giorni basta chiedere agli amici di San Benedetto del Tronto.

Vogliono fare l’NBA? Bene, allora noi facciamo in modo di rendere il resto del nostro calcio una sorta di NCAA. Un progetto nazionale il cui sistema linfatico sia composto da club che si riconoscano nel proprio territorio di appartenenza, con budget ridotti e investimenti destinati principalmente agli atleti più giovani. Ovviamente con salary cap, cosicché siano le competenze e le modalità di gestione a portare i risultati, non le pazzie di questo o quell’industriale.

Mercati ridotti ma di valore, progetti sostenibili e atleti che sono per lo più espressione della comunità e che, se lo vogliono, possono sognare di raggiungere la SuperLega europea. Strutture che non siano più voci che affossano i bilanci, ma asset da sfruttare. Un’utopia? Probabilmente sì. E allora, se proprio dobbiamo sognare, meglio farlo in grande.

Sogno pure un sistema polisportivo che sia finalmente legato alle istituzioni scolastiche, dalle scuole medie all’università. L’attività sportiva parte del sistema educativo, e non solo diletto per due pomeriggi a settimana. Per fare in modo che, per una volta, la frase “lo sport è anche educazione” non sia solo uno slogan da usare al momento di raccogliere le iscrizioni per la Scuola Calcio.

Se non abbiamo la voglia e la forza di ragionare su tutto ciò, allora anche tutta la polemica di queste ore è solo un agitarsi inutile. Possiamo pure smetterla di dimenarci, tanto le sabbie mobili ci tireranno giù lo stesso.

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