Matteo Nobile, veronese doc, è un ex giocatore di pallacanestro. Cresciuto nella Scaligera Basket, dopo l’esordio in Prima Squadra nella stagione 1991/1992 ha indossato da protagonista la casacca gialloblù nel triennio 1994/1997, conquistando una Supercoppa Italiana e la Coppa Korac. Lasciata Verona, ha iniziato una lunga carriera che lo ha portato a calcare parquet di A1, A2, B2 e C prima di tornare ancora a Verona nel 2008, dove ha contribuito alla promozione in serie A dilettanti. Lo abbiamo incontrato durante i suoi allenamenti individuali e abbiamo colto l’occasione per ripercorrere con lui la sua storia di sportivo professionista.

Matteo, partiamo dal lontano passato. Come sei entrato in palestra da bambino, chi e cosa ti ha avvicinato al basket?

«Il mio avvicinamento al basket fu del tutto naturale, non ricordo un momento preciso. La prima squadra di Verona si allenava anche all’ex Manifattura Tabacchi, mio padre lavorava lì e capitava spesso che si fermasse a guardare qualche momento degli allenamenti. Avrò avuto 5 o 6 anni, credo di aver cominciato a sognare di giocare in quel periodo. Il percorso successivo è stato una conseguenza appunto molto naturale. Non c’è stato mai un momento in cui mi sono interrogato se prendere strade diverse. Il basket è parte della mia vita e lo è stato da principio.»

Matteo Nobile in una fase di gioco con la maglia della Scaligera Basket

Sei entrato in prima squadra molto giovane, già a 16 anni, quali sono i tuoi ricordi della fase agonistica giovanile?

«Mi aggregavano spesso già da ragazzino, anche se non continuativamente, specie nei ritiri estivi, poi a 17 anni sono entrato in pianta stabile nel gruppo adulto. Sono stati anni di doppi allenamenti, quando i tecnici della prima squadra erano “Dado” Lombardi e Alberto Bucci. Il disincanto è arrivato presto. Già nelle giovanili sono stato inquadrato con la giusta mentalità, poche parole e tanto lavoro. Essere seguiti e instradati da tecnici come Fabio Celebrano e Giuseppe Barbàra è stato un privilegio perché mi hanno trasferito gli strumenti utili a diventare professionista.»

La Scaligera Basket è stato in effetti d’esempio di come l’ascesa nazionale e internazionale di una prima squadra non pregiudichi necessariamente l’attività giovanile e, anzi, una sia stata motore dell’altra.

«Non sempre è stato così, credo che il cambio di passo nella qualità del lavoro nel giovanile sia avvenuto proprio negli anni in cui io ho potuto cominciare a beneficiarne. Si dibatteva molto in società sulla linea da prendere, poi sappiamo tutti quello che è accaduto. Ancora oggi, se guardiamo ai campetti veronesi dove si gioca a basket, incontriamo molte persone che si sono avvicinate al basket in quegli anni. Quel ciclo sportivo ha costruito qualcosa di importante in Serie A, ma ha donato anche molto al territorio.»

Come mai, a tuo avviso, oggi diventa così difficile in qualunque sport di squadra riproporre modelli simili. Rimane una questione di budget?

«A Verona non avevamo un budget alto. Se ci paragonavamo alle big del campionato come Treviso, le due di Bologna, Milano e altre, noi eravamo ampiamente sotto le loro disponibilità. Era la nostra sfida quotidiana confrontarsi con le società ricche e cercare di ricavare il massimo, pur con mezzi più limitati. Quanto al giovanile, credo che il cambio di passo sia avvenuto con la sentenza Bosman. Gli stranieri hanno invaso il campionato e per i vivai è stato tutto più difficile. Quell’epoca ha avuto le sue caratteristiche, non si può replicare medesimo modello. Guarda al mio caso. Io e tanti altri miei coetanei siamo cresciuti nelle giovanili della città in cui vivevamo e poi siamo approdati in prima squadra un passo alla volta. Oggi i giovani vengono mandati in campo in serie A2 in contesti e strutture tecnico sportive molto diverse tra loro e che hanno obiettivi e ambizioni non omogenei. Crescono giocando.»

Tornando al percorso sportivo, nel tuo prime hai dimostrato mano educatissima e capacità di giocare anche lontano da canestro, caratteristiche che fanno di te un lungo di ruolo modernissimo, ma tu hai portato in campo queste abilità 25 anni fa.

«Si, in effetti, guardando all’evoluzione che ha avuto il gioco, è così. Da Verona sono passati diversi lunghi con queste attitudini, Roberto Dalla Vecchia, “Jack” Galanda per citarne alcuni. E queste nostre qualità hanno permesso alla Scaligera Basket di proporre un gioco per certi versi d’avanguardia. Oggi ce ne rendiamo conto forse più di allora. Sono, però, caratteristiche non casuali. Nel giovanile siamo stati cresciuti con la mentalità di dover imparare tutto, viceversa negli anni Ottanta l’idea era che il lungo dovesse difendere, prendere rimbalzi, fare blocchi e “menare”. Se ripenso alla metodologia di allenamento con cui siamo cresciuti, posso dire che fosse davvero moderna.»


La tua carriera ha subito due stop causa infortuni al ginocchio. Ne è stata condizionata?

«Sai, quando sei in alto e subisci uno stop che per me è stato di 8 mesi – nell’anno 1994 – quando rientri devi convincere nuovamente tutti delle tue capacità. Sono treni che passano.»

Gli infortuni, in ogni caso, non ti hanno impedito di contribuire alle vittorie di una Supercoppa e di una coppa Korac, quest’ultima trofeo storico per la città.

«Non mi piace troppo ricordare il palmares. Ricordo con piacere l’intera decade 1990/2000, ho avuto la fortuna di finirci dentro. Poi i cicli finiscono.»

Dopo alcuni anni in città, hai avviato una lunga fase professionale che ti ha visto in diverse piazze d’Italia. Che differenza c’è tra giocare a Verona o lontano da Verona?

«Era impossibile pensare di giocare a Verona tutta la vita. Capita a pochissimi sportivi di rimanere per tutta la carriera nella squadra della propria città. Con il tempo ho capito che lontano da casa si gioca con più leggerezza, senti meno il peso delle responsabilità quando le cose non girano per il verso giusto. Andare via ti arricchisce, scopri piazze nuove e modi diversi di fare basket. Quando arrivai a Brindisi, ad esempio, c’era solo grande passione e una serie B. Facendo un passo alla volta oggi sono protagonisti in serie A. Tornando alla mia esperienza, mi rimane il piacere di aver potuto vestire la maglia gialloblù e infatti sono tornato per il fine carriera tra il 2008 e il 2010. Successivamente ho giocato ancora qualche anno, ma posso dire che con il ritorno a Verona ho chiuso un po’ il cerchio e concluso la vera e propria esperienza da professionista.»

Matteo Nobile al tiro


Il passaggio da atleta a uomo che si deve costruire una seconda vita cosa comporta

«Non è stato affatto semplice. Bisognerebbe prepararsi ma non si è mai pronti. Quando giocavo ero molto focalizzato sulla pallacanestro, per me è stato impossibile progettare in anticipo il fine carriera. Poi, improvvisamente, finisce tutto quanto. Esci dalla campana di vetro dove vivi per 20 anni e rientri nella vita che hanno tutti quanti. Io dico che devi comprendere a 30 anni quello che di solito si comprende a 18. Ci ho messo circa due anni a ritrovare un equilibrio. Ancora una volta grazie al basket. Inizialmente avevo avuto un po’ il rigetto, ma un amico mi ha spinto a fare il corso allenatori. Mi sono iscritto e in poco tempo ho capito che lo sport rimane la mia vita. In ufficio non mi ci vedo proprio. Negli anni ho esaurito il percorso di formazione da tecnico, nel frattempo ho fatto tutta la trafila e sono approdato in serie C. Adesso sono fermo causa Covid-19.»

Allenando è cambiato qualcosa in te, rispetto a quando giocavi?

«Allenare è un altro mestiere, aver giocato non conta nulla, salvo che la conoscenza del gioco che ti deriva dall’averlo praticato ad alto livello. Pian piano scopri le metodologie, la necessità del rapportarsi con gli atleti e i genitori, cerchi di acquisire qualche elemento di psicologia. Dico sempre che il corso allenatori andrebbe seguito quando si è giocatori. Comprendi tante cose che il campo non ti insegna.»

Tra i tanti allenatori che hai avuto nel tuo percorso, c’è qualcuno a cui fai maggiore riferimento?

«Sono uno a cui piace lavorare in palestra senza tante parole, sono stato cresciuto sportivamente con una certa durezza. Forse, tra tutti, Franco Marcelletti.»

Come tecnico, stai entrando in contatto con tanti ragazzini che vorrai instradare per il meglio così come i tuoi allenatori del passato hanno fatto con te. C’è però qualcosa che vorresti dire a te ragazzino?

«Probabilmente lo inviterei a formarsi sulle scelte che comporta una carriera da professionista. Troppo spesso ci si affida ai procuratori. Invece occorre ragionare con la propria testa. Una carriera va indirizzata anche da questo punto di vista, non solo per quanto riguarda gli aspetti tecnici. Ho sempre giocato perché mi piaceva, non mi sono mai posto il dubbio di quale allenatore fosse più adatto a me o in quale squadra o ambiente avrei potuto offrire il mio massimo. Sono dettagli, contorni che possono cambiare le carriere.»

Se potessi scegliere nuovamente, rifaresti il cestista professionista?

«Al cento per cento. Giocare a pallacanestro era il mio sogno e riproporrei la stessa scelta all’infinito. Il percorso è stato lungo e difficile, ma non avrei potuto prendere altre strade più soddisfacenti e inclini alla mia natura.»

Matteo, torniamo ai giorni nostri con un’ultima curiosità. Ti piace il basket di oggi? Eurolega o Nba?

«Guarda, non sono quello che diceva che il basket dei miei tempi era meglio. Sicuramente in Italia ci sono stati alcuni anni di livello non eccelso, ma gli stranieri forti stanno tornando e c’è una buona qualità di pallacanestro a mio avviso. Scelgo l’Eurolega tutta la vita, di Nba ne guardo pochissima, è uno stile di gioco molto diverso, ma per me è molto più avvincente e spettacolare il basket europeo.»

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