Sono in pochi a conoscere la storia dei bambini di Svevia, la prima grande migrazione di minori della storia per motivi di lavoro. Ragazzine e ragazzini che dal Trentino-Alto Adige, ma anche da Austria e Svizzera, venivano portati a lavorare nelle fattorie tedesche dell’Alta Svevia (Baviera). Durata per circa tre secoli – le ultime emigrazioni risalgono alla metà del secolo scorso – questa storia è stata fatta conoscere al grande pubblico da Romina Casagrande, laureata in lettere classiche e appassionata di storia, con il romanzo “I bambini di Svevia” (Garzanti, 2020) che proprio in questi giorni esce anche in Francia e in Germania.

Casagrande, una storia che è durata per circa tre secoli e che alla base aveva la disperazione di tante famiglie povere. Quando è iniziata e chi erano i bambini di Svevia?
«Il primo documento in cui si attesta il passaggio attraverso l’Austria di bambini destinati alle fattorie sveve risale al 19 gennaio 1616. Si tratta di una relazione redatta a Bludenz (Austria) che li menziona come “Bambini di Svevia”. Il fenomeno è perdurato fino alla metà del XX secolo con vari strascichi locali e ha attraversato diverse fasi, tra cui la gestione da parte di un’associazione cattolica scioltasi alle soglie della Prima Guerra mondiale.

La scrittrice Romina Casagrande, foto dalla pagina Facebook

L’età dei bambini non superava i quattordici anni, potevano essere anche molto piccoli. Quando i lettori sentono parlare di bambini di cinque o sei anni mandati dall’altra parte delle montagne a lavorare, spesso si stupiscono, ma è quello che accadde. Affrontavano un lungo viaggio di sette giorni a piedi attraverso le montagne per raggiungere la Germania partendo dalle zone più povere del Trentino-Alto Adige, in particolare dalla Val Venosta. Ma anche dall’Austria, dalla Svizzera, dal Lichtenstein. Lungo il viaggio chiedevano l’elemosina per poter sopravvivere e affrontavano molti pericoli, tra i quali il rischio di essere travolti dalle valanghe, fatto che purtroppo accadde anche a un gruppo di bambini altoatesini.

È invece molto difficile stabilire con precisione il numero complessivo perché, soprattutto in anni più recenti, la migrazione assume carattere più improvvisato, non soggetto alle regole e ai dettami dell’associazione, e i transiti registrati all’entrata in Germania mancano invece di una registrazione in uscita dall’Italia. Le stime ufficiali potrebbero quindi essere riviste e il numero indicato, di 10mila bambini, potrebbe essere maggiore.»

Come venivano reclutati i bambini e in quali condizioni avveniva il loro trasferimento in Baviera?
«In genere era il prete del paese a raccogliere i bambini delle famiglie più povere. Era sempre lui, unico adulto, ad accompagnarli lungo il viaggio. Arrivati nei mercati del bestiame in Svevia, i bambini si offrivano ai contadini. Una volta conclusa la contrattazione, il bambino seguiva il fattore e cominciava a lavorare per lui, alle sue assolute dipendenze. Poteva essere un’esperienza tutto sommato positiva, perché riceveva più cibo di quanto avrebbe avuto a casa, oppure un incubo da cui si cercava di scappare. Se il bambino non corrispondeva alle aspettative, se si dimostrava troppo debole, veniva scacciato e completamente abbandonato a sé stesso. In anni più recenti le procedure di affitto si complicano e nascono figure di intermediari che “comprano” i bambini al loro arrivo nei mercati per poi rivenderli.

Si trattava per lo più di un lavoro stagionale: si partiva per San Giuseppe (19 marzo) periodo di fiere, e si tornava a casa per San Martino (11 novembre) seguendo il calendario contadino e i ritmi della campagna.

I bambini ricevevano in compenso pochi gulden (monete d’oro dei paesi di lingua tedesca, nda), un coniglio o un sacco di patate. A volte il loro lavoro era alla pari e veniva pagato con il vitto offerto, un vestito e degli scarponi che usavano durante la loro permanenza alla fattoria.»

Com’era la loro vita nelle fattorie?
«Le giornate lavorative erano estenuanti, cominciavano prima dell’alba e si concludevano dopo dieci ore di lavoro, con una certa variabilità da fattoria a fattoria. I maschi lavoravano nei campi mentre le femmine erano più richieste per i lavori di casa. Nel periodo di permanenza erano in totale balia della famiglia del contadino e questo si poteva tradurre, nei fatti, in molestie psicologiche e fisiche, soprattutto ai danni delle bambine. Abbiamo notizia di processi intentati nei confronti di contadini che abusarono di bambine di dieci anni e una vivida testimonianza è offerta da una delle rare documentazioni scritte pervenutaci attraverso il racconto di Regina Lamprecht, una bambina di Svevia che ha fornito un resoconto della sua esperienza confluita in un libro di memorie.»

Lei racconta che gli ultimi casi di emigrazione ci sono stati negli anni Cinquanta… Sempre dalle stesse zone e sempre verso la stessa direzione?
«Abbiamo testimonianze dall’Alto Adige, soprattutto. In seguito, negli anni Sessanta-Settanta, il fenomeno cambia volto. Le fattorie continuano a richiedere manodopera giovanile, ma i bambini arrivano dalle città, per lo più tedesche, e da condizioni di grande disagio familiare. Si trattava di una sorta di “rieducazione”.»

© Paul Senn, FFV, Kunstmuseum Bern, DEP. GKS

Per narrare questa storia, nel libro si avvale del racconto di Edna: una donna di 90 anni che è stata una bambina di Svevia. Dal vostro incontro cosa ne esce?
«Le storie che più mi hanno toccato sono tutte raccolte e vissute dai protagonisti del romanzo, soprattutto Edna bambina e Jacob, ma anche i loro compagni alla fattoria. Sono storie spesso dure che offrono qualche spaccato sulla loro vita e sulle loro emozioni. Edna adulta ha mantenuto alcune caratteristiche, alcune paure e piccole ossessioni, che le derivano da quell’esperienza. Ma è anche una donna che ha un’immensa voglia di sentirsi viva, di libertà. E nonostante alcuni aspetti forse cinici, nutre la speranza di poter riaggiustare le cose, di venire a patti con il passato. Si rende conto che il primo passo di un viaggio è il più difficile perché ti costringe a uscire dalla tua zona di comfort, e il viaggio stesso impone l’incontro di nuove prospettive, la messa in discussione di convinzioni radicate, smussare gli angoli, sentire che non possiamo controllare tutto. E che a volte, per guarire da un dolore, dobbiamo imparare a chiedere aiuto.»

In Alto Adige c’è un museo che ricordi questa emigrazione?
«C’è una piccola realtà museale in un paese della Val Venosta, Sluderno, ai piedi del più famoso Castel Coira, che ospita una mostra permanente dedicata ai “Bambini di Svevia” e una ricca documentazione. Le donne che lo dirigono e che se ne prendono cura sono state molto importanti per le ricerche perché le hanno arricchite di memorie orali e ricordi di famiglia.»

Un dettaglio della mostra permanente sugli Schwabenkinder esposta a Vuseum, il museo della Val Venosta a Sluderno

Perché questa storia di emigrazione e povertà è rimasta per tanti anni nascosta al grande pubblico?
«Non soltanto in Italia, ma anche in Germania, dove tanti bambini confluirono. Molti aspetti di questa vicenda restano confusi, soprattutto le responsabilità di un mondo adulto, a partire da quello dell’istruzione alle associazioni. Un artista ha realizzato una statua che coglie proprio i lati più oscuri.

“Uno sguardo cattivo sul mercato dei bambini”: lo Schwabische Zeitung (un quotidiano svevo) del 7 giugno 2002 titola così l’articolo in cui si fa riferimento alla statua dello scultore Peter Lenk a Ravensburg che raffigura un bambino di Svevia che porta sulle spalle un contadino, il quale, a sua volta, porta sulle spalle un grasso prete. Com’era forse prevedibile, ha suscitato molte polemiche. Intorno ai bambini di Svevia si preferisce dimenticare o edulcorare, attraverso la suggestione di un mondo molto più bucolico di quello che una buona parte delle testimonianze lascia intravedere.»

@ RIPRODUZIONE RISERVATA