Ci sono sguardi che fuggono di lato, la sera, in questa estate giunta alla fine. Cape Town è accarezzata da un vento più lieve, in marzo; la forza del Cape Doctor, le sue sferzate, sono un recente ricordo dal suono più opaco, notturno. L’autunno si annuncia così, senza parlare. Ombre lunghe, nel pomeriggio tardo, a coprire il pavimento di legno e le pareti, e un silenzio leggero intorno al pianoforte, sul divano.

Siamo stati a Sutherland, ieri, a guardare le stelle australi. «La volta celeste più tersa del mondo», mi hai detto, e lo sappiamo da anni, ormai, ma ripeterlo è un piacere immenso, il privilegio di ascoltarlo ancora. Ci siamo tornati, forse, venti volte, o più.

Dillo ancora, senza la paura di questi giorni.

Abbiamo visto, ieri, un cielo che cadeva tutto addosso, senza fare del male, senza rumore. Immenso, avrebbe pensato qualcuno, con ingenua supponenza. Nessuna iperbole, da queste parti, per favore. Nessuna esagerazione, né superlativo. Nessun dramma. È tutto vero, ma non parla alcuna lingua e, immaginarne una, non ha significato. Parlare con la natura è un atto vigliacco, scellerato. Nominarla, anche. Non la si può capire, non è necessario. Non lo ha mai preteso, lei.

Ammiralo, quel cielo, e ti scivolerà addosso come una carezza.

La radio, per strada, annunciava un cambiamento molecolare. L’ennesimo, mi hai detto, e ti ho ascoltata in silenzio. I tornanti scendevano morbidi verso la N1, le valli a scomparire, una dopo l’altra, e, in auto, la lieve euforia di chi sta planando senza saper volare.

Un mutamento, insomma. Una variazione. Si tingeva di bruno la terra desertica, l’asfalto nero e perfetto contro l’orizzonte scuro, netto. Una mutazione. Quello avevano appena confermato. Si parlava come due medici, ma nessuno lo era più. Nessuno lo vorrebbe più essere, adesso. E nemmeno sentirsi definire variante, fa piacere.

Quaggiù, arrivati all’incrocio finale, alla T-Junction, come la chiamano nella lingua del posto, il deserto è silenzio assoluto, un compagno di viaggio che, se parli, non ti concede errori, né ti perdona. Quando nessuno, o quasi, ti ascolta, diventi accorto, guardingo. L’errore, in questo caso, si trasforma in un certificato di pericolosità verbale, un contrassegno indelebile che ti marchia a fuoco.

Siamo varianti, in questi giorni.

Pali telegrafici e falchi in attesa, e asfalto e rosso ambrato tutto intorno. Spengo la radio. Vorremmo tornare alle parole, quelle antiche come i monoliti che scorrono aspri ai nostri lati, quelle indenni dai nuovi significati, ripetute ogni giorno, recitate come una preghiera mediatica. Le uniche parole che, noi due, vorremmo ascoltare, chiedendo loro il permesso, lasciandole dove sono, senza prenderle a prestito a buon mercato, sono altre.

Laggiù, mi hai detto indicando un grumo di  case, c’è un villaggio dell’Ottocento infestato dai fantasmi della guerra, un tetto turrito. Ci siamo fermati spesso, mi hai ricordato. Ieri non c’era tempo.  L’abbiamo superato in silenzio, immaginandoci quelle voci, di notte, dileguarsi nel buio, sotto le stelle. Dicono ne vaghino un paio, dopo il tramonto, lamentandosi con garbo. Senza pretese, mostrandosi appena.

Nel deserto, da queste parti, tutto ha un prezzo. Un valore impronunciabile.

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