Di regola un colpo di stato avviene quando l’alta dirigenza militare ritiene che siano in pericolo la sicurezza interna o esterna di un Paese o quando essa ritiene che il governo civile sia incapace di far fronte ai problemi perché “troppo corrotto”. Più prosaicamente si è spesso notata la curiosa coincidenza tra la presa del potere e l’avvicinarsi dei termini di scadenza del mandato del Capo militare. Fu così per il Generale Musharraf in Pakistan nel 1999, così per il Generale Al Sisi in Egitto nel 2013 ed è così per il Generale Min Aung Hliang che ha preso il potere il 1 febbraio scorso in Myanmar. Ma vi sono anche problematiche locali che andremo ad esaminare, problematiche che noi Occidentali spesso trascuriamo nella nostra visione o tutta bianca o tutta nera. In Oriente, invece, le sfumature contano, eccome.

Bastano due soli dati per capire la complessità della situazione: in Myanmar (ex Birmania) coesistono 135 etnie originarie, raggruppate attorno alla maggioranza Bamar (68%) e alle sono minoranze Shan (9%), che vivono anche in Cina, Karen (7%) presenti in Thailandia e Rakhine (4%) legate all’India. La scelta dei governanti birmani ha sempre privilegiato l’etno–nazionalismo alla costruzione di uno Stato unitario in grado di assorbire al proprio interno, con adeguate dialettiche, le minoranze di cui sopra; al contrario essi si sono sempre concentrati sulla difesa della maggioranza bamar, che dall’indipendenza detiene tutto il potere politico e controlla gli apparati civili e militari. Se ad esso aggiungiamo che questi ultimi, al potere per oltre cinquant’anni, hanno costantemente appoggiato una visione centralistica, scatenando così la reazione, spesse volte armata, delle minoranze, che invocavano forme, seppur limitate, di autonomia, ci rendiamo conto del vicolo cieco in cui si trova il Paese. Myanmar è poverissimo (175esimo Paese al mondo per reddito pro-capite) ma nello stesso tempo assai ricco (minerali come rame, tungsteno e ferro, riso, legname da costruzione, giada ed altre pietre preziose) ha una estensione pari a due volte l’Italia, è immerso nella foresta tropicale, con la sola striscia pianeggiante intorno al fiume Irrawaddy e con ampie zone montuose, che ostacolano non poco le comunicazioni. Oltretutto il Paese è al centro di una forte instabilità, confinando con Cina, India, Thailandia e Bangladesh, tutti Stati che, come abbiamo visto, hanno minoranze che vivono al suo interno e che, a seconda della loro convenienza, appoggiano ricorrenti guerriglie contro il Governo centrale. Ad oggi si contano ben venti fronti ribelli, che spesso si scontrano tra di loro e che non esitano a far pagare il conto alle popolazioni locali. Ci si può chiedere come mai le varie giunte militari non siano riuscite ad estirpare queste opposizioni. Perché avevano il loro tornaconto, in quanto, dopo fasi di acuta tensione, si trovava tempo e spazio per garantirsi tutti i vantaggi dei traffici illeciti, dai minerali alla droga alla tratta di esseri umani… quando si dice che la corruzione dovrebbe stare solo nei governi civili, insomma.

“La Lady” e Premio Nobel per la Pace

Durante il periodo più oscuro della dittatura, fino ai primi anni 2000, la risposta della comunità internazionale è consistita nell’adozione di sanzioni sempre più pesanti, che, come ben noto, non servono a nulla, se non a colpire le fasce più deboli della popolazione. Proprio in coincidenza con la fine del dominio militare emerge la figura di Aung San Suu Kye, “la Lady” come la chiama la stampa internazionale. Kye ha trascorso ben vent’anni agli arresti domiciliari. Il suo strenuo impegno per l’affermazione della democrazia fu riconosciuto con il conferimento del Premio Nobel per la Pace, che le assicurò un considerevole appoggio internazionale che favorì la sua liberazione. La transizione al regime civile fu però imperfetta o per dire meglio “ibrida”. Nel 2010 il Tatmadaw (nome che designa complessivamente le Forze Armate Birmane) favorì un partito fantoccio che ottenne una larga maggioranza; i militari si garantirono così una serie di “privilegi”, iscritti addirittura nella Costituzione, che ne tutelavano il ruolo: nomina di Ministri chiave quali Interno e Difesa e riserva di un quarto dei seggi all’Assemblea nazionale onde da impedire ogni modifica costituzionale.

Ma l’arrendevolezza (relativa) dei militari fu favorita dall’entrata in scena di un nuovo attore, la Cina, che guardava con grande interesse al Myanmar: oltre a sostenere, come forma di pressione, la guerriglia nello Stato del Shan, dove è presente una minoranza cinese, Pechino si dimostrò interessata all’importazione di materie prime, di legname e di petrolio attraverso l’oleodotto che collega il Golfo del Bengala al confine cinese. Esso ha un’importanza strategica perché permette di evitare lo stretto delle Molucche, che i cinesi temono possa essere chiuso, in caso di crisi, al passaggio delle loro navi con incalcolabili danni per l’import–export.

Il caso dei Rohingya

Tra i problemi più sentiti dalla comunità internazionale vi è il caso dei Rohingya, popolazione di etnia araba e di religione musulmana installatasi nell’area ai tempi della espansione araba (ma tale versione è contestata). Durante la Seconda Guerra Mondiale i Rohingya combatterono per gli Inglesi, mentre i nativi “originari”, i Rakhine (etnia indiana e di religione buddista) si schierarono con i giapponesi (il celebre film “Il Ponte sul fiume Kwai” narra di episodi realmente accaduti da quelle parti). Si è quindi scavato tra le due popolazioni un forte odio, alimentato anche dalla volontà dei Rohingya di unirsi al Pakistan, ora Bangladesh. Non sorprende perciò che alcuni anni fa la Lady, chiamata a testimoniare davanti al Tribunale Internazionale dell’Aja abbia sorprendentemente difeso i militari birmani dall’accusa di genocidio. Ella affermò in quell’occasione che i Rohingya non sono originari della regione, ma solo “ospiti temporanei provenienti dal Bangladesh” e per questa loro non adattabilità ai costumi birmani costituiscono “un pericolo per l’unità e la sicurezza del Paese”.

Nella circostanza la delusione della comunità internazionale fu forte e il suo prestigio crollò, mentre quello stesso prestigio è sempre rimasto altissimo in Patria tanto che il suo Partito ha poi stravinto le elezioni del novembre 2020, assicurandosi il 83% dei suffragi, umiliando il Partito “amico” dei militari. Questi ultimi prendendo, chissà, ispirazione dalle denunce di brogli avanzate dal Presidente Trump hanno cominciato a parlare di una “frode terribile” verificatasi nelle operazioni di voto. E al rifiuto della Lady di accettare il riconteggio è scattato l’intervento, di cui da tempo si parlava, ma che nessuno si aspettava tanto immediato.

Cosa succederà adesso?

Dobbiamo distinguere tra società civile e rapporto con i Fronti combattenti ribelli. Nel primo caso accadrà ben poco, se non una cauta attesa di tempi migliori. Con il coprifuoco, il divieto di tenere manifestazioni, il controllo sulla stampa, il taglio di Internet, il pattugliamento di tutti i luoghi sensibili, non vi è possibilità per l’opposizione di scendere in piazza. La Lady stessa è “trattenuta” perché accusata di aver importato senza autorizzazione quattro walkie talkie per le sue Guardie del Corpo; l’accusa appare ridicola, ma – si sa – i militari non hanno il senso del ridicolo…

Con i Fronti (anche se non tutti) era stata raggiunta nello scorso agosto una intesa che prevedeva un lento ma graduale passaggio da uno Stato centralizzato ad uno federale, così da prendere in considerazione alcune delle richieste più urgenti (nomina di responsabili locali, investimenti nelle aree più povere, costruzione di strade, ecc.). Tutto questo potrebbe essere rimesso in discussione? È possibile, vista l’ottica centralistica con cui i militari hanno sempre guardato al Paese. Ma vi è un’altra possibilità: convinti della sostanziale impunità per quanto fatto (l’ipotesi di un isolamento internazionale non è oggi praticabile), essi potrebbero gestire in prima persona questo delicata trattativa con i Fronti sfruttando il percorso della Lady in modo da togliere alla odiata rivale l’appoggio popolare di cui gode. È presto per poter dare una risposta ma non bisogna dimenticare:

a) la delusione della comunità internazionale per il comportamento della Lady e quindi il minor grado di mobilitazione per la sua liberazione;
b) il sostegno della Cina, che insieme a Russia, India e Vietnam ha bloccato all’ONU una mozione di condanna e che considera il rovesciamento del governo civile una semplice “questione interna”;
c) la presenza nel Sud-Est asiatico di regimi dittatoriali (Cina e Thailandia) o democrazie con forti venature autoritarie (India, ma anche Singapore e Indonesia) che sono disposti a tollerare la nuova situazione in Myanmar, dati gli interessi geo-strategici, economici e commerciali in gioco.

© RIPRODUZIONE RISERVATA