UE: privacy, libertà di espressione e digitalizzazione
La spinta verso la digitalizzazione ha un lato oscuro che l'Europa sta cercando di affrontare, in un ambito di condivisione globale.
La spinta verso la digitalizzazione ha un lato oscuro che l'Europa sta cercando di affrontare, in un ambito di condivisione globale.
Nel programma pluriennale lanciato dalla UE, il cosiddetto NextGenerationEU, un quinto del budget disponibile è dedicato alla digitalizzazione, a tutte le meraviglie dell’innovazione tecnologica che ci possono migliorare la vita. Di quanta influenza abbia sulle nostre vite ce ne siamo accorti davvero tutti con il lockdown, scoprendo un mondo che prima era forse giardino privato di nerd e sviluppatori. Dalla didattica a distanza allo smart working, dalle piattaforme in streaming per il tempo libero, ai canali per vedersi e fare aperitivi virtuali con gli amici, tutte queste applicazioni ci hanno aiutati a superare un periodo senza precedenti, a limitare i danni dell’isolamento e del distanziamento fisico. Tra gli obiettivi del programma europeo rientrano molteplici filoni di attività che si propongono di mettere la tecnologia al servizio dei cittadini, in un ambiente aperto ma al tempo stesso sicuro. Si parla ad esempio di creare un European cloud, una nuvola condivisa dagli Stati membri, o anche di mettere in rete le università, in modo da facilitare il confronto, la ricerca, lo sviluppo. Un altro tema, molto importante, riguarda il lato oscuro del mondo digitale, il crescente potere delle piattaforme internet e la loro imprevista influenza, anche politica, sul mondo reale.
La presidentessa della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha recentemente ricordato come “la folla inferocita all’assalto di Capitol Hill sia un esempio di cosa accade quando il messaggio diffuso online viene seguito dalle azioni e diventa una minaccia per la democrazia”. Nonostante la democrazia europea abbia più volte dimostrato di essere resistente, è altrettanto vero che va protetta dai difetti più comuni del popolo del web: disinformazione, mezze e post verità, fake news e, come si è visto, perfino una vera e propria istigazione alla violenza. In un mondo dove le opinioni urlate e superficiali ottengono la massima attenzione e dove si ottengono più visualizzazioni quanto più polarizzante e divisivo è il messaggio, diventa pressante regolamentare l’accesso alle piattaforme dei giganti del web. Quel che è stato fatto agli account social di Donald Trump può essere considerato un atto necessario o almeno utile in quello specifico contesto, ma si è trattato a tutti gli effetti di una pesante interferenza con la libertà di espressione e non sembra possibile che la decisione su un diritto fondamentale possa essere lasciata alla “policy aziendale”: va deciso dalla politica, dai parlamenti nei limiti di un regolamento deciso e condiviso dagli Stati, non certo dai ricconi della Silicon Valley.
Lo scorso dicembre la Commissione europea ha lanciato due importanti iniziative di legge, il Digital Services Act e il Digital Market Act, che – una volta finalizzate – potrebbero costituire il contesto normativo di riferimento per le piattaforme online. Si parte da un presupposto tanto semplice quanto complesso da trasferire: quello che è illegale nel mondo analogico deve esserlo anche in quello digitale, senza eccezioni. Le società devono assumersi la responsabilità della distribuzione, promozione e, se necessario, rimozione dei contenuti; devono essere trasparenti su come funzionano i loro algoritmi e come vengono conservati o ceduti i nostri dati personali. C’è un ottimo docufilm sulla piattaforma Netflix, “The Social Dilemma”, in cui viene spiegato da ex impiegati di Google, Facebook e altri come in effetti gli utenti delle piattaforme digitali siano il vero e proprio “prodotto”. Imparando cose su di noi, grazie alle registrazioni, alle foto, alle localizzazioni GPS, a commenti e post, permettiamo ai gestori di profilarci, di inviarci pubblicità mirata e migliorare così i propri profitti.
Possono anche indurci a pensare o perfino fare cose, portandoci per mano in un percorso binario in cui le nostre scelte su un argomento vengono utilizzate come riferimento direzionale per la successiva. Nella serie meravigliosa di minifilm di “Black Mirror” è memorabile la puntata in cui allo spettatore viene chiesto di scegliere con il suo telecomando tra due possibili finali di scena, creando di fatto mille storie diverse. Siamo noi i personaggi dentro quel film e qualche volta decidiamo noi come va avanti il racconto, qualche altra lo fa un algoritmo. In ogni caso, le opzioni sul tavolo, nelle mani del profilatore, diventano progressivamente più indirizzate e focalizzate; meno “nostre”.
Gli articoli 7 e 8 dei Diritti Fondamentali europei fissano alcuni parametri importanti per proteggere il diritto al rispetto della privacy, della propria intimità familiare e dei dati personali. Sono già molti i casi arrivati alle corti comunitarie che hanno visto le società digitali obbligate ad applicare gli standard europei ai dati personali anche al di fuori della UE. Le iniziative a protezione dei nostri interessi di cittadini europei, come le leggi sui servizi e sui mercati digitali, sono accompagnate da un inasprimento della normativa già esistente, la General Data Protection Regulation (o GDPR) presa a modello da numerosi stati nel mondo. Con il Digital Market Act si intende proibire alle piattaforme la profilazione unica di dati forniti direttamente dall’utente con quelli raccolti o scambiati con altri provider. Ed è allo studio anche la creazione di una Identità Europea Sicura, per dare ai cittadini europei un’alternativa per navigare in rete senza preoccupazioni. La UE agisce da sola, nell’interesse degli europei, ma ricerca come sempre il consenso e la condivisione con le altre forze mondiali, nella convinzione che un tema assolutamente globale vada regolato e gestito in collaborazione e armonia tra tutti i protagonisti. L’elezione di Joe Biden potrebbe giocare a favore di uno spirito unitario nell’affrontare il lato oscuro della digitalizzazione; si discute già della creazione di un Consiglio congiunto per il commercio e la tecnologia, da cui potrebbe scaturire un vademecum basato sui diritti umani, sull’inclusione e la privacy a cui invitare ad aderire il mondo intero.
Si potrebbe forse anche arrivare a una svolta nell’imposizione di una “digital tax”, argomento delicato ma che entra prepotentemente nelle cronache della pandemia. Leggere degli enormi, incredibili guadagni dei gruppi tecnologici in tempo di crisi sanitaria, vedere il loro valore di mercato prendere il volo mentre gran parte del tessuto economico globale sta andando a rotoli, lascia senza parole, con l’amaro in bocca. Si stima che tra febbraio 2020 e gennaio 2021 saranno andati perduti 255 milioni di posti di lavoro, al netto di tutte le iniziative prese dai singoli Stati per preservare l’occupazione che di fatto hanno un effetto doping sui dati statistici. Mentre moltissimi lottano per sopravvivere finanziariamente (e non solo), ci sono pochi eletti che si arricchiscono senza limiti e, quel che è peggio, senza nemmeno pagare tasse “come fisco comanda”. L’Europa vanta un mercato potenziale di oltre 450 milioni di consumatori e non si può certo definire chiusa al mondo esterno, anzi. L’invito a tentare la fortuna in Europa è aperto e senza vincoli, ma in cambio sembra legittimo poter (e dover) pretendere che chi in Europa produce ricavi lasci qui anche una parte di quel guadagno, in modo che possa essere reinvestito al servizio dei bisogni e dello sviluppo dei cittadini. Von der Leyen dice che intende portare la discussione al livello successivo, in sede OCSE, sperando nel supporto dell’amministrazione Biden. Noi le crediamo, finora alle sue parole sono sempre seguiti fatti, anche sorprendenti.