Sui danni provocati dalla cancel culture a un secolo buono di riflessione e critica storiografica ci sarebbe molto da dire, ma non è questo il contesto più adatto. Tocca rilevare, però, che come spesso accade, la versione nostrana delle invenzioni d’oltreoceano assume le tinte della commedia, e questo caso non fa eccezione.

Così, il primo giorno dell’anno, nel bel Paese dove, notoriamente, “si studia troppa Storia” è finita sul banco degli imputati di un giornale locale veronese la Marcia di Radetzky, che dal 1946 conclude, come ultimo di tre fuori programma, il concerto di Capodanno nella Musikverein di Vienna, trasmesso in tutto il mondo e assai popolare anche in Italia nonostante l’introduzione, alcuni anni fa, della versione “concorrente” in salsa tricolore dalla Fenice di Venezia che ha sottratto al concerto viennese il privilegio della diretta RAI, relegandolo a una trasmissione in differita nel primo pomeriggio.

Per l’anonimo estensore di questo “j’accuse” l’ovvia ragione dello scandalo risiederebbe nel fatto che quel brano, accompagnato ogni anno dai battimani di moltissimi spettatori, venne composto nel 1848 da Johann Strauss padre per celebrare l’ingresso del feldmaresciallo a Milano, riconquistata dall’Austria dopo che le truppe imperiali avevano dovuto abbandonarla con la coda tra le gambe a seguito delle Cinque giornate di Milano. Un evento luttuoso e funesto per i patrioti italiani, che a Vienna – com’era giusto che fosse – veniva invece salutato con entusiasmo, tanto da indurre uno dei compositori più popolari dell’epoca, fortemente filomonarchico, a celebrare il trionfo componendo, appunto, una marcia da eseguire nel corso dei festeggiamenti organizzati nella capitale ancora in balia dei moti rivoluzionari. 

La marcia di Strauss, nata con il peccato originale di essere un omaggio al feldmaresciallo boemo che tanto dolore inflisse ai patrioti lombardo-veneti (e non solo a loro), dovrebbe pertanto essere bandita (sic!), perché ancora oggi, a quasi due secoli di distanza, offende e ferisce la coscienza nazionale. E più che mai a Verona, in memoria della dura rappresaglia ordinata proprio da Radetzky contro il borgo di Castelnuovo del Garda, dove si era asserragliato un piccolo contingente di volontari agli ordini del maggiore Agostino Noaro, nel corso della Prima guerra d’Indipendenza. 

Al netto di questa divagazione nella storia locale, sulla quale torneremo a breve, è bene segnalare che questo appello non è affatto nuovo, e che periodicamente il brano che chiude il Capodanno viennese è stato messo sotto accusa, tanto a livello nazionale – ricordo polemiche nell’anno delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità – quanto a quello locale, con vestali della patria memoria che ogni tanto, in uno o nell’altro comune del nord Italia (soprattutto, per ovvie ragioni, fra Lombardia e Veneto), lanciano i loro strali contro l’esecuzione di queste note “insanguinate”. E del resto, alla Marcia di Radetzky è toccato pure, lo scorso anno, un altro tipo di processo storico, poiché l’arrangiamento tradizionale con il quale veniva eseguita da quasi un secolo era opera di Leopold Weninger, pressocché sconosciuto compositore austriaco iscritto al partito nazista fin dal 1932. Solo che in questo caso ci si era limitati a elaborare un nuovo arrangiamento, salutato con entusiasmo dai Wiener Philharmoniker.

Il generale Joseph Radetzky

L’ennesima rivendicazione per la messa al bando della marcia non impensierirà di certo la Filarmonica di Vienna, ma è un segnale sintomatico di un uso non soltanto errato, ma deleterio e pericoloso della conoscenza storica sul quale è opportuno riflettere. Nel rievocare la crudele punizione inferta dalle truppe al comando del generale Wilhelm Thurn und Taxis contro la popolazione di Castelnuovo, l’articolo si spinge infatti fino a definire Radetzky un “criminale di guerra”, paragonando – non senza una certa confusione – il suo operato a quello del sottotenente americano William Calley, artefice del massacro di My Lai in Vietnam, e il suo comportamento a un atto di “terrorismo”. L’intento è chiaro e provocatorio: possiamo davvero accettare il fatto di augurarci “buon anno” battendo le mani per ricordare un criminale di guerra, definizione che rimanda immediatamente alle peggiori nefandezze del XX secolo? Naturalmente omettendo del tutto il fatto che il concerto tradizionale non si concluda con il brano incriminato dai tempi di Carlo Alberto e Cecco Beppe, bensì dal 1946, quando l’Austria, uscita umiliata e piegata dalla Seconda guerra mondiale, aveva preoccupazioni diverse dall’inviare minacciosi messaggi revanscisti all’Italia per mezzo della sua orchestra nazionale.

Tuttavia, non siamo di fronte a un semplice artificio retorico, ma a una mistificazione bella e buona, fondata sull’assurda quanto diffusa pretesa di assoggettare il passato, più o meno recente, a codici morali, e addirittura legali, di epoche di molto successive, utilizzando il tempo presente come unico filtro – inevitabilmente distorto – per leggere la Storia. Giunti a questo punto, non si tratta più nemmeno di rilevare l’insensatezza sottesa a un approccio simile: l’insensatezza dell’esigere il rispetto dei diritti umani da parte dei cavalieri crociati, o giudicare un ufficiale formatosi in età napoleonica alla luce della Convenzione di Ginevra non merita ulteriori spiegazioni. Il tema centrale è invece quello della funzione sociale (e politica) della Storia, che dovrebbe aver perso ogni connotazione di tribunale morale da almeno mezzo secolo, e che invece viene strattonata e stiracchiata in mille modi per essere utilizzata come clava da scagliare sulla testa degli oppositori.

L’uso politico, in senso largo, del Passato non è certo una novità, ma è opportuno segnalare come un fenomeno che nel dibattito pubblico sembra essere esclusiva del Mezzogiorno, con la retorica neoborbonica perennemente impegnata nel ricordare i “primati del regno” e a trasfigurare il brigantaggio in lotta per l’emancipazione, sia in realtà assai diffuso anche alle nostre latitudini, e assuma qui una curiosa doppia veste. Da un lato, un bizzarro accrocco che mette insieme indipendentisti veneti e cattolici oltranzisti in nome del revisionismo storico per costruire – non è chiaro su quali basi – il mito posticcio di una Verona fedelissima a Venezia e insorta per difenderne l’indipendenza contro Napoleone (anche in questo caso dipinto con toni degni di Herbert Kappler) e, insieme, improvvisamente affezionatasi all’Austria tanto da rifiutare l’annessione al Regno d’Italia nel 1866. Dall’altro, un più sparuto nucleo di “cultori” del Risorgimento, sicuramente più scevri di doppi fini politici rispetto ai primi, ma ugualmente incapaci di dare una lettura obbiettiva e matura degli eventi e, soprattutto, dell’eredità monumentale e simbolica lasciata dal XIX secolo nel territorio, riproponendo al suo posto una sorta di tardiva riedizione degli eventi che sembra uscita da un sussidiario filomonarchico di fine Ottocento. 

Due esempi diversi di pessimo uso della Storia che, in maniera e con spazi diversi, occupano la scena del dibattito pubblico, impedendo così a un discorso più serio, documentato e storicamente aggiornato su Verona e il Veneto nel secolo decimonono di uscire dal ristretto alveo dell’accademia per diventare patrimonio condiviso, non tanto in un’ottica di riappacificazione collettiva, ché il conflitto lo sente solo chi lo anima, con sceneggiate (profumatamente finanziate dai contribuenti) come quelle legate alle Pasque Veronesi o, nel 2016, alla contestazione del Plebiscito. Bensì per consentire alla città di riappropriarsi di una pagina importante ma tragicamente trascurata del suo passato, e di farlo in maniera razionale e obbiettiva, con approccio scientifico, trovando un equilibrio fra il revisionismo ossessivo di chi, per sostenere battaglie politiche del presente, misinterpreta gli eventi del passato e inventa la tradizione, e questo approccio da storiografia nazionalista, che con il nobile intento – si spera – di fronteggiare la retorica reazionaria in chiave antiunitaria, finisce per arroccarsi su uno sciovinismo ridicolo e fuori tempo massimo.

L’auspicio è che Verona riesca ad affrancarsi da queste trappole ideologiche, recuperando anche nel suo approccio alla Storia recente una sensibilità non nazionalista, ma patriottica (per usare le categorie di un bel pamphlet di Maurizio Viroli) che le consenta, finalmente, di valorizzare il suo patrimonio, architettonico ma anche culturale, ereditato dall’Ottocento, divenendo proprio in virtù della sua posizione mediana fra Venezia e Milano, fra il fu-Regno Lombardo-Veneto e il mondo tedesco, un fervido centro di studi storici che recuperino la conoscenza del negletto XIX secolo. Nel frattempo, anche a rischio di essere preso pure per austriacante (le etichette fantasiose ormai si sprecano), dichiaro serenamente che continuerò a battere le mani ascoltando la Marcia di Radetzky a Capodanno. In attesa di ascoltarla, massimo segno di riconciliazione, suonata in Arena dai Wiener Philharmoniker.