Francesca Moscardo, classe 1987, e blogger con formazione da storica dell’arte, in arte Nanabianca. Lavora nel campo della comunicazione, mettendo in luce e dando voce a un inedito punto di vista, guardando il mondo da un metro di altezza. 

Innanzitutto chi è Nanabianca?

«Sono Francesca Moscardo, nata a Verona 33 anni fa con una rara forma di nanismo: la displasia diastrofica, una patologia che mi ha fatta crescere solo fino ai 98 cm di altezza e che ha condizionato il mio modo di affrontare la vita quotidiana. La mia bassissima statura, però, non mi ha impedito di condurre un’esistenza piena e impegnata, di studiare, trovare lavoro, coltivare gli interessi più disparati, prendere la patente, viaggiare.

Da fuori la mia vita appare incredibile, nel senso che sembra impossibile conciliare una condizione fisica così particolare con una routine quotidiana “normale” e pressoché autonoma. E, in effetti, quello che vivo e che vedo è davvero straordinario! Per questo nel 2017 ho deciso di dare vita a “Nanabianca Blog – Il mondo a un metro d’altezza”. Come mai questo nome? Perché una nana bianca è una stella piccola come la Terra ma pesante come il Sole: un’immagine efficace di come percepisco me stessa. Nanabianca è il mio alter ego social e mi serve per parlare di accessibilità, di “diversità” e inclusione. E tutto con tanta, tanta ironia!»

Ti sei formata come storica dell’arte e hai un considerevole percorso di studi in questo ambito con una laurea magistrale a Verona e la scuola di specializzazione a Padova; sei una specialista in storia dell’arte medievale. Che cosa ha significato per te osservare l’arte da un metro di altezza?

«Dalla mia prospettiva vedo dettagli che in genere sfuggono, viceversa trovo difficoltà a guardare oltre un parapetto, salire in cima a una torre medievale o a una cupola. Insomma, essere una storica dell’arte alta un metro significa anche dover sacrificare qualcosa e non poter raggiungere alcuni luoghi; ma d’altronde è un ostacolo che condivido con tante altre persone disabili.

La mia condizione di nana, però, mi ha posto di fronte a una domanda: com’era rappresentata la disabilità nei secoli scorsi? Da qui ho iniziato a prestare più attenzione e ad andare alla ricerca delle tracce visibili della “diversità” corporea nel passato.»

Un ritratto intenso di Francesca

Lo scorso anno, al festival “Non c’è differenza” di Verona, hai tenuto una conferenza su Le persone nane nella storia e nell’arte. Che cosa hai scoperto e che cosa hai voluto comunicare?

«In quell’occasione ero stata invitata a tenere una lezione di storia dell’arte, ma dato che la tematica del Festival era la “diversità” – nel senso più positivo e ricco del termine – ho scelto di approfondire il filone a me più affine ovvero la rappresentazione del nanismo nella storia. Era un argomento quasi inesplorato anche per me: studiarlo è stata una continua sorpresa! Ho trovato una mole sterminata di testimonianze archeologiche, iconografiche e letterarie.

Ho scoperto che il più antico scheletro di individuo nano è stato rinvenuto in una grotta in Calabria e risale addirittura al Paleolitico superiore (9200 a.C.). La vicenda di questo ragazzo preistorico mi ha molto colpita, era alto meno di un metro e venti ma visse fino a 15-20 anni, segno che il suo gruppo sociale lo aveva accettato, accudito e cresciuto.

Anche l’Egitto faraonico ha regalato numerosissime e affascinanti rappresentazioni: nane potevano essere le danzatrici di corte, nani potevano essere musici e gioiellieri, fino a ricoprire le più alte cariche della gerarchia di palazzo. In quell’epoca remota il nanismo era percepito e venerato come espressione del divino, considerazione che andrà mutando nel corso dei secoli per prendere progressivamente una piega sempre più sinistra: dalla deformità fisica intesa come castigo divino nel Medioevo, ai nani di corte che nel Rinascimento venivano ostentati come meraviglie da collezionare, fino alla più recente deriva del nano come fenomeno da circo.

Grazie alla mia ricerca ho capito che l’approccio verso il nanismo ha subito un’involuzione attraverso i secoli, anziché un’evoluzione. Nel 2020 dovremmo riappropriarci di quel senso di inclusione della diversità tramandatoci dal Paleolitico.»

Da sempre ti batti per rendere accessibili a tutti mostre, pinacoteche e musei. Ricordo un tuo simpatico video su “Lavarsi le mani al Museo Egizio di Torino”. Raccontaci un po’…

«Il cruccio di ogni persona disabile è la toilette. Ogni volta che si va in un bagno pubblico si presenta la grande incognita di cosa ci si troverà di fronte, andare a fare pipì potrebbe allora essere sia un’esperienza soddisfacente, che una totale catastrofe. Io che sono nana, poi, ho esigenze ancora diverse da una persona su sedia a rotelle, tanto che paradossalmente un bagno a norma è per me quasi impraticabile da sola.

Quella volta al Museo Egizio di Torino ho avuto la gradita sorpresa di trovare un lavandino in miniatura accanto a quello standard, al punto di voler immortalare in un video la gioia di potermi lavare le mani sotto l’acqua corrente. Un gesto così banale, eppure oggi più importante che mai.»

Da qualche tempo svolgi un’importante attività di consulenza per l’accessibilità turistica e spieghi che le disabilità non sono tutte uguali, ma sono molto diverse l’una dall’altra. Cosa si dovrebbe fare per migliorare le strutture ricettive e turistiche in Italia?

«Tralasciamo per un attimo il problema, evidente e diffuso, delle barriere architettoniche. Bisognerebbe partire dal presupposto che un turista disabile è prima di tutto un turista, che quindi va e spende denaro)dove sa che le sue esigenze particolari vengono accolte. Il prossimo step sarebbe abolire l’espressione “esigenze particolari”, per chiamarle esigenze e basta.

Serve una grande dose di umiltà, ma anche di spirito imprenditoriale, da parte del settore turistico, poiché le disabilità sono tantissime e le necessità molteplici. Un ragazzo cieco, o sordo, considera aspetti diversi da uno su sedia a rotelle al momento di prenotare un hotel: bisognerebbe tenerne conto in fase di progettazione delle strutture e all’interno dell’offerta turistica.

Una persona di bassa statura come me ha esigenze ancora diverse, legate principalmente alle altezze di maniglie, interruttori, finestre, sanitari… Per questo ho avuto l’idea di dare un riconoscimento a quelle strutture che si impegnano a eliminare tali ostacoli, anche con soluzioni versatili ed economiche. L’ho chiamato Nana Friendly e nei prossimi mesi viaggerà con me. Spero di generare attenzione su questa problematica specifica, ma il fine ultimo è l’accoglienza più ampia possibile.»

Spesso tu posti sul tuo blog anche interessanti soluzioni fai-da-te per la vita quotidiana. Puoi illustrarci qualche esempio?

«La routine quotidiana mi pone davanti a sfide di natura squisitamente pratica. Lavarsi, vestirsi, cucinare, spostarsi: quando si è alti 98 cm e si hanno le braccia corte bisogna trovare soluzioni spesso fantasiose.

Dove compro da vestire? Come faccio a cucinare? Come salgo in auto? Sono domande che mi fanno in tanti. Vi porto qualche esempio.

Il mio guardaroba comprende abiti acquistati in negozi da bambini (taglia 10-12 anni) o da donna (taglia XS, 38): mia madre, che ha dovuto improvvisarsi sarta, accorcia e adatta dove la stoffa eccede. Avendo le mani conformate in modo diverso prediligo i bottoni grandi, mentre per chiudere meglio le zip mi aiuto con degli occhielli di stoffa cuciti accanto al cursore.

In cucina ho trovato altre soluzioni per non scottarmi con il fuoco e con l’acqua della pentola di pasta: ho ricreato il mio angolo cottura con una piastra a induzione, che non ha fiamme libere; per scolare la pasta, invece, non la rovescio nello scolapasta, bensì “pesco” i fusilli con un grande mestolo bucato e aspetto che l’acqua si sia completamente raffreddata per rovesciarla nel lavandino. Lavandino al quale arrivo grazie a uno sgabello a due gradini.

Per sintetizzare, la mia vita è fatta di sgabelli e di bastoncini per arrivare a pigiare i pulsanti.»

Hai trovato uno stile del tutto personale per vivere la tua condizione, che cosa consiglieresti a chi è ancora alla ricerca di una cifra personale con cui guardare il mondo?

Non ho una vera ricetta, ma di una cosa sono sicura: bisogna avere il coraggio di essere se stessi, perché ci viene sicuramente meglio. E alla lunga paga sempre.»

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