Durante questa snervante epidemia dell’universo carceri si è parlato molto poco e per altre questioni, più legate alla contingenza politica, come lo scandalo della scarcerazione di molti mafiosi ancora oggi fuori dalle sbarre. In realtà, il problema non è per nulla scomparso ma è solo ignorato mentre continua, nel silenzio generale, lo stillicidio di suicidi tra i detenuti (34 fino al 1 agosto 2020) ma anche tra le guardie carcerarie, come ad agosto a Latina. Perché la prigione è anche segregazione dalla società di un essere socialmente pericoloso, espiazione della pena a risarcimento del dolore per un atto compiuto contro qualcuno o contro la società: e questo, in parte, spiega l’oblio.

L’avvocata Carlotta Pizzighella

Ma il carcere è soprattutto rieducazione e reinserimento. Ecco quindi la necessità di riallacciare un rapporto con la comunità ed ecco, dunque, il senso di un’iniziativa come “Giustizia riparativa e percorsi di inclusione – dentro e fuori il carcere” (ciclo di 4 conferenze, di cui la prima dal titolo “Percorsi di responsabilizzazione dentro e fuori il carcere”). Di questa iniziativa, che vuol contribuire a rendere le carceri italiane un posto finalmente rispettoso della dignità umana, non solo un luogo punitivo ma anche utile al cambiamento, parliamo con l’avvocata Carlotta Pizzighella, promotrice – assieme all’Associazione L’Intreccio Laboratorio – della serie di incontri che cominceranno oggi, mercoledì 18 novembre, in streaming dal teatro Ristori di Verona e a cui è possibile iscriversi a questo link.

Avvocata Pizzighella, da cosa deriva questa sua attenzione al tema? Dalla sua esperienza lavorativa?

«In realtà no, perché io nasco avvocato civilista: il mio interesse è proprio di natura “umana”. Come consigliere della Prima Circoscrizione ho avuto modo di incontrare l’Associazione Intreccio. Ho potuto così conoscere e approfondire, in modo casuale, la realtà nella quale loro operano, vedere da vicino quel mondo. Ne ho esplorato molti aspetti, talvolta quasi romanzeschi: il detenuto scrittore, il Garante, il volontario volenteroso… Ho visto, soprattutto, l’ingiusto pregiudizio nei confronti di chi ha pagato il suo debito con la società.»

Qual è oggi la situazione nelle carceri italiane?

«La realtà italiana del sistema penitenziario non è uniforme. Certo, abbiamo strutture carcerarie molto virtuose nella proposta di corsi di recupero, come ad esempio il carcere di Montorio a Verona, che ha attivato poi molti progetti (maneggio, attività culinarie…) ma il problema del sovraffollamento, acuito dal Covid, è diffuso su tutto il territorio nazionale; ad esempio, il garante regionale Campania, dottor Samuele Ciambriello, in occasione della conferenza testimonierà che il sistema in alcune Regioni, come Campania e Puglia, è già prossimo al collasso.»

Il programma dei quattro incontri

Nei vostri incontri si discute di diritti dei detenuti. Tema che, in una società come la nostra che invoca la sicurezza ad ogni costo, anche umano, sembra lontano dai bisogni degli italiani…

«In verità, sono due argomenti assolutamente complementari anche se apparentemente distanti. La gente comune, infatti, ritiene la realtà carceraria lontana e avulsa dal vivere quotidiano e suo malgrado poco interessata ai percorsi di recupero dei detenuti. Queste conferenze, invece, rivolgendosi anche alla gente comune e non solo ai tecnici del diritto, hanno proprio lo scopo di far capire quanto invece le due realtà siano strettamente correlate. Un dato su tutti: le carceri sono oggettivamente sovraffollate e, nel 70% dei casi, se il detenuto non compie un percorso di recupero e reinserimento reitera il reato e torna in carcere.

Di contro, nel caso in cui il soggetto venga accompagnato nel suo reinserimento nella società proprio con i percorsi di inclusione previsti, la probabilità che torni a delinquere crolla al 20%.

Anche solo esaminando questo dato come si può pensare che il recupero del detenuto attraverso la valorizzazione e tutela dei suoi diritti primari non sia un argomento che riguardi tutti noi? Coinvolge in primis la nostra stessa sicurezza, per non parlare dei costi per lo Stato di mantenimento di una struttura che, se così prosegue, sarà destinata a collassare.»

Recupero e reinserimento; alcuni detenuti, tuttavia, sembrano insensibili a qualsiasi percorso rieducativo. È un problema di strategie di recupero o effettivamente, per la sua esperienza, la fiducia di Rousseau nella natura umana non è sempre fondata?

«I percorsi di cui parliamo mirano, attraverso l’istruzione, la cultura e soprattutto il lavoro, a favorire l’apprendimento di nuovi stili di vita, nel rispetto delle leggi e delle regole della convivenza civile, senza perdere di vista la consapevolezza e la responsabilità dei reati commessi e delle relative conseguenze. Le persone vengono di fatto rieducate al vivere civile, responsabilizzate in merito ai loro comportamenti. Tali percorsi prevedono anche i sostegni psicologici che mirano alla consapevolezza di ciò che si è fatto e magari all’indagine personale sul perché si è arrivati li. Io credo molto nella bontà di tali percorsi in quanto è innegabile che la cultura e l’educazione al lavoro “salveranno il mondo”, ma comprendere a pieno se una persona sia recuperabile o meno a prescindere non ritengo sia nelle mie competenze.»

Parlavamo prima di ferita, un vulnus – alla società o a una famiglia – che lacera il tessuto sociale e provoca riprovazione e, quindi, pregiudizio. In cosa consiste la Giustizia riparativa?

«La Giustizia Riparativa consiste in un tipo di giustizia complementare a quella rieducativa. Consiste in un percorso che il reo dovrebbe compiere assieme alla vittima e che mette al centro proprio il dolore di quest’ultima e la sua dignità. Si prevedono dei passaggi ben scanditi, assistiti da un soggetto terzo detto facilitatore/mediatore, tra cui il momento di riconoscimento di responsabilità per il reo e quello nel quale colui che ha subito il danno chiede “perché”; questo passaggio apparentemente banale risulta invece essere assolutamente forte per entrambe le parti: la ricerca di questa verità permette alla vittima di giustificare il proprio dolore, per non restare vittima per sempre. Quindi non si sta parlando di un mero concetto risarcitorio, ma di un percorso personale che faccia superare il “danno”, sia da parte di chi lo ha compiuto, sia per chi lo ha subito; da lì sorge il cosiddetto effetto “riparativo” della giustizia, si vuole riparare la ferita.»

©Riproduzione riservata