Il decreto del governo nazionale che impone a ristoranti, pizzerie, bar, pasticcerie e pub di chiudere alle ore 18 ha sollevato le proteste dei titolari dei pubblici esercizi.

“Alle 18.00 costretti a chiudere, ma avere un futuro è un nostro diritto“. È questo
il messaggio del manifesto che migliaia di bar, ristoranti, pub e altre imprese della
somministrazione aderenti a Fiepet Confesercenti affiggono sulle proprie vetrine per protestare contro le restrizioni introdotte dal decreto per capo del governo (il DPCM).

“La chiusura anticipata alle 18 della ristorazione con il crollo delle attività di bar,
gelaterie, pasticcerie, trattorie, ristoranti e pizzerie ha un effetto negativo a
cascata sull’agroalimentare nazionale”, denuncia un’analisi di Coldiretti. “La perdita di fatturato di oltre un miliardo per le mancate vendite di cibo e bevande nel solo mese di applicazione delle misure di contenimento”.

Giusta protesta? Giusta l’analisi? In parte sì. In parte no. La situazione è più complessa della semplice “serrata“. E vi sono alcune domande, scomode, che la “crisi da Coronavirus” pone al mondo della ristorazione e della caffetteria.

La prima domanda: è stato fatto tutto il possibile per rispettare, con efficienza e convinzione, le regole e i protocolli studiati per i pubblici esercizi, in modo da evitare il contagio da Covid-19?

La seconda domanda: come hanno reagito, a livello di comunicazione, ristoratori, pizzaioli e gestori dei bar, all’emergenza determinata dal Coronavirus? E come si sono rimodulati a livello di impresa?

La terza domanda: la crisi ha insegnato qualcosa al mondo della ristorazione, della caffetteria e del food in generale sul rispetto dei diritti dei lavoratori e sull’obbligo di pagare tasse e imposte?

La quarta domanda: cosa fare per rilanciare un settore che sta maledicendo le dure leggi dell’economia di mercato? Tutti liberisti quando si tratta di incassare denaro, evitare il fisco e non pagare a dovere i lavoratori. Tutti socialisti quando si vuole protezione e aiuti dallo Stato.

Una premessa, certo, si impone prima che si possa tentare di rispondere alle domande: non tutti i ristoratori, non tutti i pizzaioli, non tutti i baristi sono uguali. L’ho sperimentato su di me – come tutti del resto – dalla riapertura dopo il lockdown a oggi.

L’auspicio, allora, è che tengano aperto e vadano alla grande i professionisti della ristorazione e della caffetteria, che sono la stragrande maggioranza. Chi non sa stare sul mercato non può che chiudere: è la legge del capitalismo, bellezza. Non è che adesso – mi riferisco alla piccola fetta di ristoratori incapaci e disonesti – potete invocare il socialismo o il protezionismo per coprire malefatte e incapacità.

Coronavirus-ristoranti_-trattorie_-bar_-locali-pubblici-Heraldo.it-3-photo-Mitchell-Hollander
I pubblici esercizi sono chiamati alla ripartenza su nuove basi. Foto di Mitchell Hollander (Unsplash)


Covid-19: quei protocolli spesso subiti e mal digeriti

Lunedì 26 ottobre, in diretta sulla televisione veneta TVA, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, di solito preciso e attento sui dati, ha dichiarato una cosa non vera: “Non vi sono contagi attraverso la ristorazione”.

I casi sono due: Zaia non è informato sul tracciamento dei casi di Covid-19 nella ristorazione; oppure ha detto, preso dalla foga di assecondare gli elettori della ristorazione, qualcosa di infondato.

Come possiamo sapere se la ristorazione, i bar e tutto il comparto sono veicolo di contagio? Soltanto se si tracciano i contagiati. Non so tu, che mi leggi, ma delle ventina di volte che sono andato al ristorante o in pizzeria o al bar, dalla fine del lockdown a dieci giorni fa, solo due esercizi pubblici mi hanno chiesto i dati: nome, cognome, telefono oppure email.

Come può il presidente Zaia sapere se il Covid-19 passa attraverso i ristoranti – come è normale che sia se non vi sono comportamenti corretti – nel momento in cui non vi è registrazione degli avventori? I contagiati che si registrano possono segnalare di essere stati in un certo bar o ristorante o pizzeria; altrimenti tutto sfugge. Se vi sono i dati, poi, si possono fare controlli incrociati e studi – anche a campione – per capire quanto la ristorazione e la caffetteria contribuiscano al contagio da Coronavirus.

Quello che ho verificato sul campo è che – tranne quattro ristoratori – tutti i pubblici esercizi dove sono stato hanno accettato mal volentieri, e applicato assai male, le regole. Oltre a non essere stato registrato come cliente, in un ristorante – lo scorso agosto – ho trovato persino il responsabile di sala, titolare del locale, che non indossava la mascherina. Sulla regolarità ed efficacia di alcune mascherine indossate da camerieri e gestori della ristorazione, poi, avrei qualche dubbio.

Non ho avuto alcun invito a lavarmi le mani. Né alcuna precauzione – tranne che in due ristoranti – nell’uso dell’oliera o della bottiglia dell’aceto. Ci si è passati gli oggetti fra i tavoli. Tranne che in due casi, nell’altra trentina di ambienti, ho visto il distanziamento di un metro applicato al centimetro: della serie, applico formalmente le regole e poi se la vedano gli avventori con il Coronavirus.

Qualche esercente dirà: “Sono forse io il custode dei miei clienti?”. La risposta è semplice: “Se sai fare il tuo mestiere, come lo sapeva fare mia madre in negozio e trattoria molti anni fa, il cliente è il centro del tuo mondo. Di lui ti importa e con lui fai anche il maestro e l’educatore, quando serve”.

Non so gli altri clienti di bar, ristoranti e pizzerie, ma ho trovato in una esigua minoranza il prendersi in carico sul serio del problema di bloccare il contagio. Non ho visto molti ristoratori premurosi di assumere tutte le precauzioni del caso. La certezza, più che una semplice impressione, che ho avuto è che il mondo della ristorazione e della caffetteria per una larghissima maggioranza abbia preso le restrizioni come un’imposizione. Qualcuno ha pure tentato di fare “contro-cultura”, facendo credere che il Covid-19 è un falso problema. Mentre la titolare di un bar mi ha detto che “i contagi crescono perché si fanno tanti controlli”. Che sarebbe come dire che il colesterolo si alza perché lo si misura.

Il cliente? Ci vuole una “cura” maggiore dai pubblici esercizi

La triste sensazione che ho avuto è quella – al di là del Covid vero o falso problema – di non trovare in moltissimi gestori di pubblici esercizi la cura e la passione per il cliente. Ho visto applicato l’esatto contrario di quanto vanno sottolineando i maggiori esperti di marketing e di comunicazione a livello internazionale. Ovvero di mettere l’Altro – il cliente – al centro. In questo caso, l’avventore con le sue paure, la sua voglia di esorcizzarle e di sentirsi a suo agio. Perché stare al bar, al ristorante o in pizzeria è un bello stare: tanto vale farlo bene, nell’interesse del cliente e nel sacrosanto interesse dell’imprenditore.

La convinzione di star partecipando a una guerra, dove tutti dobbiamo combattere, non l’ho trovata che in un numero limitatissimo di locali. Dove siano, allora, gli investimenti in sicurezza anti-Covid, di cui la ristorazione si sarebbe fatta carico nel suo complesso, mi è difficile scoprirlo. A meno che non consideriamo investimenti “eccezionali ed evitabili” (se si può) quelli da farsi nella pulizia, nel rispetto dell’igiene in cucina e in sala e alla toilette, nell’informazione ai clienti.

Che il contagio passi attraverso molti canali – trasporti e scuola in testa – non vi è dubbio. Ed è gravissimo che il governo non abbia investito massicciamente già da marzo nel trasporto pubblico, stanziando qualche miliardo per le regioni. Così come si sapeva benissimo che non aveva senso tornare alla scuola in presenza al 100%: si potevano e si dovevano studiare soluzioni miste nell’istruzione già a marzo, quando ogni persona di buonsenso sapeva che di questo virus ci libereremo – forse – entro il 2021.

In ogni caso – vale per la ristorazione e la caffetteria, come per la scuola e i trasporti – il cambio di passo andava fatto. Il premier Giuseppe Conte, a questo proposito, ha mostrato di fare più proclami che azioni efficaci, senza nulla togliere all’impegno del governo. E senza dimenticare che presidenti di Regione e sindaci da un lato vogliono l’autonomia – lo dico da federalista convinto – e dall’altro, però, denunciano lo “scaricabarile” del governo quando gli si delega una responsabilità forte.

Coronavirus-ristoranti_-trattorie_-bar_-locali-pubblici-Heraldo.it-4-photo-Jason-Leung
Ristoranti e bar alle prese con la chiusura alle ore 18 per il Coronavirus. Foto di Jason Leung (Unsplash)

Nella ristorazione e nella caffetteria non ho notato un cambio di passo, a livello di comunicazione con il cliente e attraverso i media, come invece mi sarei aspettato. Il Covid-19 era l’occasione di profilare il cliente, di creare relazioni, di cogliere i bisogno degli avventori e di soddisfarli con nuovi servizi e prodotti.

Diritti dei lavoratori, obblighi fiscali e la cultura d’impresa nel libero mercato

Diciamo francamente: non vi è stato tracciamento dei clienti, tranne rare eccezioni, perché tracciare i clienti vuol dire che lo Stato ha modo di controllare quanti avventori hai. E quindi lo Stato può verificare quanto puoi incassare e quanto dovresti denunciare al fisco, in un Paese che ha oltre 140 miliardi di evasione delle imposte.

Non solo: alcuni ristoratori e titolari di pubblici esercizi – lo si è visto a Napoli, ma anche in Veneto – non sono interessati alle sovvenzioni, perché se le sovvenzioni vanno in parallelo con il fatturato, chi fattura poco avrà assai poco. Inoltre, dare contributi a un’azienda vuol dire anche – ed è assai giusto – “profilarla” sul piano fiscale e del diritto dei lavoratori alla giusta mercede.

Il tema dei diritti dei lavoratori e della fedeltà fiscale va di pari passo con quello della “cultura d’impresa” nel libero mercato. Un’impresa di qualità, che possa affrontare i periodi difficili e quelli di crisi come l’attuale, non può che puntare su tre elementi: rispetto delle regole, innovazione di prodotti servizi e dell’organizzazione, comunicazione con il cliente (o potenziale cliente).

Chi non paga i lavoratori come andrebbero pagati; chi non rispetta gli obblighi fiscali; chi non fa innovazione; chi non è attento al cliente e alle sue esigenze, ai suoi interessi e ai suoi bisogni, non sa fare impresa. E allora è bene che cambi mestiere, se non cambia mentalità.

Una chicca, che mi ha segnalato una mia giovane studentessa che si mantiene l’università lavorando part-time nella ristorazione, è questa: il titolare di una pizzeria e vineria che vuole assumere un cameriere sulla base della nazionalità. Cerca un cameriere italiano. E che abiti in zona. Questo commerciante viola la legge, sapendo di violarla, come si può vedere dall’annuncio più sotto. Propone, come talvolta accade, un’assunzione part-time, con stipendio part-time. Peccato che in più circostanze allo stipendio part-time ci si veda corrispondere, mi racconta la mia studentessa, un orario ben oltre il full-time.

Ecco qui l’inserzione comparsa su Subito.it del 15 ottobre 2020, alle ore 14.43. Ho tagliato il nome dell’azienda, che comincia per A. ed è in latino.

Ora, dovremmo fidarci ad andare a mangiare e a bere – Covid-19 o meno – in pubblici esercizi che non pagano le imposte secondo il dovuto? Oppure che non rispettano i diritti dei lavoratori? O che non hanno a cuore la salute dei clienti, applicando al meglio la prevenzione da Coronavirus? Questi commercianti poco seri sono certo una minoranza; così come sono minoranza le aziende della ristorazione e della caffetteria che non rispettano le regole. Bene, questa minoranza di imprese può uscire dal mercato, per lasciare spazio ai tanti – e sono la stragrande maggioranza – ristoratori, baristi, titolari di pizzerie, pub e caffè onesti.

Ristoratori e titolari di pubblici esercizi sono gente che “si fa il mazzo”; e che deve imprecare contro burocrazia, imposizione fiscale troppo alta, lacci e lacciuoli. Il fatto è che solo rispettando le regole abbiamo il diritto di scendere in piazza per protestare. Non il contrario.

Il problema di fondo, quindi, è di aiutare, rilanciare e far sì che non chiudano le attività dei ristoratori, baristi, pizzaioli e titolari di pub e caffè onesti e rispettosi delle regole. Cosa fare per quest’obiettivo?

Coronavirus-ristoranti_-trattorie_-bar_-locali-pubblici-Heraldo.it-2-photo-Pablo-Merchan-Montes
Il mondo della ristorazione chiamato ad avere cura del cliente. Foto di Pablo Merchan Montes (Unsplash)

Ristoranti, pizzerie e bar: chi merita saprà rilanciarsi, gli altri chiuderanno

I pubblici esercizi che sapranno davvero cambiare passo potranno rilanciarsi. Gli altri chiuderanno. Il tutto in una congiuntura di contrazione degli affari, non vi è dubbio, ma che rappresenta – per la seconda volta – lo stimolo e l’occasione per un cambio di passo a livello imprenditoriale.

Le direzioni su cui muoversi sono tre: ambito finanziario, progetto d’impresa e comunicazione. Per l’ambito finanziario, ovvero come gestire il debito della propria attività, e sul progetto d’impresa, ovvero come rivedere il modello di business e come rimodulare l’organizzazione, il personale e il modo di lavorare vi sono studi di consulenza specializzati.

Per quanto riguarda la comunicazione, solo in un caso – fra ristoratori, baristi e titolari di pizzeria che ho frequentato negli ultimi quattro mesi – ho trovato una professionalità ad ampio raggio. Negli altri, quando è andata bene, ho trovato il menù da consultare via smartphone. E poco altro.

Il cambio nella comunicazione è fondamentale, specie per la filiera della ristorazione e dell’agroalimentare. Mi riferisco, per prima cosa, alla comunicazione interpersonale: l’accoglienza e il dialogo con il cliente e la simpatia (oltre all’empatia) verso chi viene nel tuo locale, fondamentali soprattutto in tempo di crisi, di insicurezza e di incertezza.

Non so gli altri, ma io mi sono sentito bene in quel ristorante – qui a Mezzane di Sotto (Verona), da dove scrivo – dove il manager del locale ha fatto corsi di aggiornamento per i collaboratori in cucina e in sala; ha puntato sulla comunicazione interpersonale; ha investito sulla comunicazione sui media (sito web e social). Poi, a livello di organizzazione della sala, ha perfino esagerato: i tavoli a due metri e mezzo (non un solo metro) di distanza e distanziamento di oltre un metro anche nella tavolata con otto persone.

Quel manager di ristorante non ha una grande sala, ma ha pensato che è più proficuo investire su un menù di qualità, legato al territorio; sulla sicurezza e il comfort dei clienti; sullo studio dei costi al centesimo. Il tutto sapendo guadagnerà assai meno in quest’anno maledetto; ma ho l’opportunità di investire per il futuro. Per gli imprenditori, anche nel commercio, guardano certo al flusso di cassa quotidiano; ma con una prospettiva a medio e lungo termine.

La comunicazione sui media è fondamentale, purché abbia la sua premessa nella comunicazione interpersonale che fa sentire bene e coccolato il cliente. La comunicazione sui media, utilizzando il tracciamento anti-Covid, consente di creare una relazione con i cliente, di “studiarlo” cogliendone le abitudini e gli interessi, di profilarlo nel dettaglio. Il tutto non con lo scopo di manipolarlo, ma di soddisfarlo al meglio.

I più importanti professionisti americani della comunicazione digitale parlano, non a caso, di human centered communication. La persona al centro della comunicazione: un principio da applicarsi soprattutto nella ristorazione e nella caffetteria. La domanda, allora, è: quanti ristoranti, pub, bar, caffè, pizzerie si sono preoccupati di ristudiare in modo professionale i costi e le entrate, di rivedere il modello di impresa e di cambiare la comunicazione in modo efficace?

Certo, un piccolo bar o una pizzeria di periferia non è pensabile che faccia questo da solo (o da sola). Qui servono le organizzazioni di categoria, che ben fanno a protestare per i diritti degli imprenditori. Purché insegnino agli imprenditori a fare il loro mestiere – specie nella crisi da Coronavirus – rispettando obblighi fiscali, diritti dei lavoratori, competenze aziendali e comunicazione di qualità.

Foto di copertina: Alexander Popov (Unsplash)