La diciannovesima tappa del Giro d’Italia, originariamente prevista da Morbegno ad Asti per 258 km, la più lunga in programma in questa edizione, è stata dimezzata all’ultimo minuto a causa di una protesta di una parte dei corridori. Il via ufficiale è stato dunque dato da Abbiategrasso, dopo che la carovana ha dovuto spostarsi alla nuova partenza quando alcuni pullman delle squadre, nonché molti mezzi di supporto, si erano già avviati lungo il tragitto originario. Una brutta pagina di sport, non c’è che dire. Prima di tutto per il tempismo troppo ravvicinato all’orario di partenza, in secondo luogo per la mancanza di rispetto verso quelle persone e quei luoghi che attendevano con innata trepidazione il passaggio del Giro.


Veniamo però ai fatti di cronaca. Alla vigilia della partenza della tappa di venerdì, il gruppo ha manifestato la volontà di non correre la frazione in programma laddove non si fosse provveduto ad accorciarla. Le motivazioni sono state: eccessiva lunghezza accompagnata da condizioni atmosferiche – pioggia e freddo – in grado di infierire sul sistema immunitario dei corridori, messo a dura prova in questo periodo di pandemia. Infine, l’importanza strategica di una tappa di montagna forse decisiva per l’esito finale della corsa. In realtà non è ancora chiaro se i ciclisti abbiano fatto fronte comune – si narra che alcuni di loro fossero addirittura all’oscuro della protesta – o se alcuni abbiano evitato di esporsi, tuttavia un sindacato dove le persone sono in competizione tra di loro rimane l’esempio di eterno incompiuto di questo sport. Rimane difficile risalire con esattezza ai fatti e annotare una verità assoluta. Un fronte comune, tuttavia, pare non esserci mai stato. Nel ciclismo, la consuetudine vuole che siano i possessori della maglie principali a esporsi in prima fila. In questo caso, però, a esporsi è stata solo la maglia rosa Keldermann che ha pubblicamente manifestato il proprio dissenso a favore del dimezzamento. Molti altri hanno scelto il silenzio mentre non è giunta inspiegabilmente alcuna comunicazione ufficiale da parte di molte squadre e dei rispettivi direttori sportivi i quali, aggirando la polemica e i possibili strascichi legali, con grande opportunismo hanno anche colto l’occasione per evitare di prendere posizione.

Torti e ragioni, come sempre, non sono facili da attribuire, specie se un certo velo di omertà è sceso da subito sulla carovana, impedendo di ottenere informazioni complete sui fatti. In ogni caso l’Organizzazione del Giro d’Italia, e in primis un arrabbiatissimo Mauro Vegni, avrebbero sicuramente meritato un diverso trattamento. L’essere riusciti a organizzare un Giro in questo periodo di pandemia, superando incredibili difficoltà, grazie anche all’aiuto di istituzioni, sponsor e realtà locali, è stata una sfida senza pari. E anche in occasione della 19esima tappa l’Organizzazione ha dato prova di grande competenza e capacità, trovando in poco tempo una soluzione alternativa al percorso originario.

Il ciclismo, però, è diventato uno sport sempre più usurante, vista la necessità da parte degli organizzatori di alimentare sempre più l’interesse di ogni tappa. Non è solo questione di lunghezza ma di aumento della competitività media, attraverso anche l’utilizzo di studiate altimetrie, per ridurre al minimo le pause per il gruppo. Nonostante qualcuno, come il giornalista “Beppe” Conti, consideri il Giro di quest’anno di livello medio basso, le rilevazioni cronometriche ci dicono che il ciclismo sta tornando ai livelli degli anni Novanta. Senza tirare nuovamente in ballo il discorso doping, questo conferma come le prestazioni degli atleti siano ai massimi storici, segno evidente che il professionista oggi per eccellere debba spingersi ai limiti delle prestazioni e, forse, anche oltre. Essere dalla parte dei corridori può significare, quindi, la volontà di riportare il ciclismo a logiche più umane. Il sindacato si è schierato in questo caso a favore della protesta, obbligando Mauro Vegni a soddisfare la volontà del gruppo, sebbene forse non pienamente condivisa al suo interno. Tuttavia, resta il fatto che il problema andava forse affrontato almeno la sera prima, senza arrivare alla figuraccia messa in scena al momento della partenza della tappa. Un dimezzamento concordato con anticipo avrebbe probabilmente messo d’accordo tutti, atleti, tifosi e, soprattutto Organizzazione, senza la quale non ci sarebbe nemmeno il business, dal quale deriva anche il compenso per chi gareggia. Questo meccanismo può piacere o meno, ma è comune ad ogni sport professionistico ed è fatto di regole che ogni atleta, apponendo la firma in calce ad un contratto, ben conosce e accetta.


Il percorso originario, comunque, non avrebbe messo a rischio al sicurezza dei ciclisti. La pioggia leggera e una temperatura in linea con una gara primaverile su un tragitto di 260 km, avrebbe solamente creato un maggior divario tra gli atleti, secondo le singole capacità di recupero e di adattamento alla temperature autunnali, elementi determinati per definire vincitori e vinti di qualsiasi corsa a tappe. Sottrarsi al giudizio insindacabile della strada, significa in una certa misura contravvenire a quella sorta di patto fiduciario in essere con i tifosi e con l’intera carovana che da sempre accompagna il Giro. Il ciclista sofferente non è solo il gladiatore di un tempo, ma è anche un modello in cui l’appassionato si identifica, accostando le proprie sventure quotidiane a quelle dei suoi idoli in gara. In ogni caso, discutere dei fatti relativi alla 19esima tappa significa ancora una volta interrogarsi su quale sia il limite tra sport e presunto schiavismo sportivo, tra diritti e doveri di un atleta professionista, su quali siano i suoi obblighi e i suoi limiti per esercitare il proprio dissenso.

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