Come nel detto popolare dei pifferi della montagna, che andarono per suonare e furono suonati, Il Movimento Cinque Stelle, che pretendeva di causare uno tsunami in Italia, dallo tsunami ha finito per essere travolto dopo le numerose prove elettorali, con le quali ha visto progressivamente ridursi il patrimonio di consensi raccolto alle elezioni politiche del 2018. Anno in cui era stato incoronato primo partito del Paese con il 35% di consensi. Nel Veneto lo tsunami Zaia ha quasi cancellato il M5S, che solo per un cavillo burocratico è riuscito ad agguantare uno scranno in Consiglio regionale.

Il Movimento è in crisi profonda, lacerato com’è dalle tensioni tra “movimentisti” e “governisti” e privo in questo momento di un vero leader, con il “movimentista” Di Battista alla finestra in attesa degli eventi, sconcertante caso di soggetto privo di mandati, incarichi e responsabilità ma che viene accreditato dai media e da parte del movimento come un interlocutore politico. Il suo obiettivo, nemmeno troppo coperto, è quello di mettersi alla testa della fazione dei “movimentisti” qualora vi fosse una (sempre più probabile) scissione che separi le anime di lotta e di governo della ormai quasi ex creatura di Grillo.

Quali le cause di questa situazione per quello che nel recente passato è stato il movimento politico che ha dettato i tempi e i temi del dibattito politico in Italia? I motivi principali sono sostanzialmente tre. In primo luogo, il fallimento dell’utopia che stava alla base del M5S, ovvero il sogno di realizzare un movimento di cittadini che attraverso l’utilizzo di piattaforme informatiche potesse bypassare le istituzioni rappresentative parlamentari e imporre un nuovo modo di esercitare la democrazia in maniera diretta, attraverso lo strumento della consultazione continua su internet. Questo genere di rappresentanza diretta non avrebbe avuto bisogno di politici di professione, dato che il ruolo del rappresentante del movimento nelle istituzioni si sarebbe limitato ad essere quello del “notaio” delle decisioni prese dalla “base”.Il M5S è sempre stato molto diffidente nei confronti della rappresentanza indiretta e proprio questa diffidenza sta alla base della sua proposta del taglio del numero dei parlamentari, passata tramite voto referendario. Tuttavia, l’esperienza di governo ha dimostrato quello che già Max Weber aveva affermato molti decenni fa: nelle moderne democrazie il lavoro politico è troppo complicato per essere esercitato direttamente dai cittadini, ma necessita di quelli che lo studioso definiva i «professionisti della politica». Il M5S in qualche modo, tra molti sussulti che lo scuotono, si sta dirigendo in questa direzione, che lo porta a divenire un partito poco dissimile da quelli tradizionali, con tanto di correnti e nomenklatura, e tanti saluti delle originarie istanze di praticare una politica “dal basso”.

Il secondo motivo della crisi del M5S è da ricercarsi probabilmente nel progressivo allontanamento del fondatore Beppe Grillo, il quale sembra aver fatto un passo indietro e non voler più agire attivamente all’interno delle dinamiche del movimento stesso. Il M5S nasce dai V-day del comico genovese e il ritirarsi dietro le quinte del suo fondatore lo priva di uno degli ingredienti fondamentali per il successo di un movimento politico moderno ovverosia la presenza di un leader carismatico. Il “principe democratico” è un elemento centrale della politica moderna, il declino di Forza Italia che sta andando di pari passo con il declinare umano del suo anziano leader è l’anticipazione di quale destino avrà il M5S senza un leader carismatico che ne prenda le redini.

Terzo motivo, aver perso il contatto con il mondo imprenditoriale e delle partite iva. I cosiddetti produttori. L’opzione dirigista propugnata dal Movimento che vede nello Stato-Imprenditore il regolatore principale dell’economia, le politiche assistenzialiste come il reddito di cittadinanza e la diffidenza per la classe imprenditoriale («i prenditori», come venivano definiti dal movimento nella sua fase di lotta), hanno allontanato le classi produttive dal Movimento, classi che nel Veneto si sentono rappresentate dal “ligavenetismo” zaiano.

Che ne sarà quindi del M5S se dovesse continuare il trend che si è imposto dopo le elezioni del 2018 e che vede i suoi consensi ridursi e concentrarsi nelle regioni del Centro-Sud? Una delle possibili opzioni realisticamente attuabili che avrà in mano la dirigenza è quella di trasformare il Movimento nello stakeholder nelle istanze nel meridione. Una sorta di “Lega Sud” in grado di mobilitare il consenso di vasti settori della società meridionale con programmi assistenzialisti e redistributivi come quelli tentati con il reddito di cittadinanza e che hanno visto le regioni del Sud Italia esserne le principali beneficiarie. Ma si illude chi pensa che il ridimensionamento del M5S preluda a una “normalizzazione” delle istanze populiste in Italia. Lo spazio d M5S verrà semplicemente occupato da qualcosa probabilmente ancor più radicale. La manifestazione “no mask, no vax “ di Roma è un segnale.

Marta Vanzetto

Venendo alla dimensione locale veronese, Marta Vanzetto, agguerrita consigliera comunale del Movimento nella nostra città, ragiona così: «La battaglia si deve combattere sul territorio. A Verona la base non accetterebbe nessuna ipotesi che prevede la con-fusione del M5S con il PD. Occorre quindi rimarcare la nostra identità e ripartire dal territorio, mettendo (o rimettendo, se si pensa ai “meetup” degli albori del movimento) in piedi una struttura che si faccia portavoce delle istanze che vengono dalla società civile, solo così potremo ricominciare a parlare i cittadini».
E a Verona che farà M5S? Tra pochi mesi si entrerà di fatto nella lunga campagna elettorale che porterà alle elezioni amministrative del 2022.
«Allo stato attuale non sono in agenda riflessioni riguardo alleanze organiche con alcun partito – spiega Vanzetto –. Ma un ragionamento sulla possibilità di tessere alleanze con liste civiche espressione del territorio e dei cittadini sarà sicuramente possibile. Il Movimento non pone pregiudiziali sui nomi che potrebbero esserci su queste liste, ma sui programmi. È chiaro che ragionamenti con chi come proposte porta la realizzazione di centri commerciali, la cementificazione, oppure opere malamente concepite come la filovia da parte nostra non possono essere fatti. L’unico minimo comun denominatore non può che essere il bene comune e le istanze dei cittadini.»