Le elezioni regionali e il referendum sono ormai archiviati, ma è ancora tempo di analisi e riflessioni. Se da una parte il “Sì” al taglio dei parlamentari ha confermato la volontà già emersa in precedenza dai due rami dello stesso Parlamento, dall’altra le elezioni regionali (che hanno visto un sostanziale pareggio, con Puglia, Toscana e Campania rimaste al centrosinistra e Marche, Veneto e Liguria al centrodestra) hanno lasciato più di qualche strascico, soprattutto a Venezia e dintorni.

Lo strapotere di Luca Zaia, votato da tre cittadini veneti su quattro, induce inevitabilmente a qualche confronto interno nel centro-sinistra, che con il candidato Arturo Lorenzoni non ha saputo far breccia negli elettori. Ne parliamo con il deputato veronese Diego Zardini, classe ’78, al secondo mandato in Parlamento dove siede dal 2013.

Zardini, partiamo dal referendum: ha vinto il Sì, ma all’interno del vostro elettorato sono stati in molti a votare per il No. Come se lo spiega?

«È stata una questione molto dibattuta e non poteva essere altrimenti. Teniamo conto che in Parlamento noi del PD avevamo votato “No” due volte al Senato e due volte alla Camera, quando la riforma era all’interno di una riforma più ampia che voleva di fatto “sparlamentare”, concedetemi il termine, la nostra democrazia.

Quel tipo di riforma prevedeva inizialmente, oltre al taglio dei parlamentari, anche il superamento del vincolo di mandato e altri provvedimenti che avrebbero allontanato ulteriormente i cittadini dai loro rappresentanti. Quel tipo di riforma, con la nascita del governo giallorosso, è stata stoppata e alla fine è rimasta solo la proposta del taglio dei parlamentari, che poi è arrivata fino in fondo. Le altre proposte avrebbero modificato profondamente la natura della nostra democrazia come era stata concepita nel 1948. Abbiamo aderito a quell’accordo proprio per frenare una visione che noi giudicavamo eversiva e per accompagnare questa e altre riforme verso un maggior efficientamento della nostra democrazia. Già in passato, una ventina d’anni fa circa, anche alcuni nostri esponenti avevano proposto il taglio dei parlamentari, proprio nei numeri che sono stati stabiliti oggi con il referendum.»

Ovviamente questo non basta. Cosa succederà ora?

«Il dissidio al nostro interno e con il nostro elettorato è stato causato proprio da questo. Il processo per arrivare a varare gli “accompagnamenti” al taglio sono partiti, anche a causa del Covid-19, soltanto un mese prima del referendum, a cominciare dalla legge elettorale che dovrà essere ovviamente modificata, ora, in modo da garantire l’adeguata rappresentanza alle forze politiche più piccole così come a tutti i singoli territori. Probabilmente se questa parte delle riforme fosse stata più avviata i nostri elettori avrebbero potuto votare più serenamente.»

Possiamo dunque rassicurare anche chi ha votato “No” che questo del taglio dei parlamentari è solo un primo passo, ma che ulteriori e urgenti riforme sono al vaglio?

«Ripeto: le riforme sono già ripartite un mese fa. La riforma Fornaro, che prende il nome dal collega di LEU che l’ha proposta, prevede una serie di modifiche di accompagnamento, assolutamente necessarie. Purtroppo non arriveremo a chiudere l’iter entro la fine di quest’anno perché nei prossimi mesi ci sono anche la legge di bilancio da approvare e il Recovery Fund e l’emergenza sanitaria da gestire, ma rimane un segnale chiaro di volontà politica di non ridurre le riforme a un mero taglio dei parlamentari.»

Veniamo alle Regionali in Veneto. La vittoria di Zaia era annunciata anche nei numeri, ma di sicuro vedere la conferma delle previsioni nelle urne deve indurre la sinistra a fare una riflessione profonda.

«È stata una delle sconfitte più brucianti ed eclatanti mai vissute. Era annunciata, è vero, ma questo non lenisce il dolore. Io credo che sia stata stimata la capacità di Zaia di ben amministrare. Gli elettori vanno rispettati e ora la riflessione dev’essere tutta nostra.»

Si, ma sono 25 anni che il centrosinistra, in Veneto, riflette. Forse è arrivato il momento di cambiare qualcosa?  

«Lo so. Non siamo in sintonia. La riflessione va fatta in Veneto dal partito veneto, ma anche a Roma dal partito nazionale. Che si deve prendere in carico questa riflessione. Anche perché spesso i messaggi che abbiamo dato, in passato, sono stati contraddittori: siamo un po’ per l’autonomia ma quando poi arriviamo a Roma non lo siamo più; siamo per la vicinanza alle imprese e al territorio ma poi anche un po’ no. E via dicendo.»

Si può dire che il PD nazionale abbia lasciato il Veneto al suo destino?

«Il partito ci considera una causa persa. I risultati, d’altronde, sembrerebbero dare loro ragione. Ma se noi per primi pensiamo che lo sia e non facciamo nulla per cambiare le cose, la situazione non cambierà mai di una virgola, anzi, tenderà al peggioramento. Noi, al contrario, dobbiamo essere in pista e non in tribuna ad assistere al trionfo del centrodestra.»

Cosa recrimina?

«Non andava fatta “quella roba lì”. Lorenzoni è una persona degnissima e uomo capace, intelligente, preparato. Un ottimo professore universitario. Sarebbe stato probabilmente un candidato ideale in molti luoghi, ma in Veneto, contro uno come Zaia molto comunicativo, andava probabilmente fatta una scelta diversa. Se hai delle ottime idee ma nessuno le conosce non puoi pensare di vincere.»

Venendo alla nostra città almeno la veronese del PD Anna Maria Bigon ce l’ha fatta…

Anna Maria Bigon

«C’è grande delusione per il numero dei consiglieri di opposizione in Regione, ridotto rispetto alla precedente tornata elettorale. Il fatto che all’opposizione ci sia solo il PD e qualche esponente della lista di Lorenzoni ci dispiace molto. La democrazia funziona meglio se c’è un po’ di opposizione e 9 contro 41 non è esattamente quella che si può definire un’opposizione forte. Ci dispiace, fra l’altro, per chi non è stato eletto. Sono figure che stimiamo e a prescindere dal risultato hanno fatto tutti un ottimo lavoro. A Vicenza e a Verona in particolare con Allegri e La Paglia, è stato fatto davvero tanto e a ben guardare i numeri la verità è che alcuni hanno preso molte preferenze, ma nonostante questo rimangono fuori da Palazzo Ferro Fini. Il fatto che poi ci siano dei bravi consiglieri di opposizione che per fortuna sono stati eletti ci deve far ben sperare. Anna Maria Bigon è assolutamente fra questi. Sono contento per lei. Si è data molto da fare da quando è entrata nel partito e questo è un risultato che premia la sua dedizione.»

Allora guardiamo anche al prossimo appuntamento elettorale a Verona: le Amministrative del 2022. Anche in questo caso si rischia di affrontare una causa persa. O no?

«Assolutamente no. Io dico che se sono riusciti a dare del filo da torcere i candidati della Lega in Emilia Romagna e in Toscana, roccaforti del centro-sinistra, perché non possiamo fare, al contrario, una degna competizione noi del PD a Verona? Non la dò assolutamente per persa, anzi. Dobbiamo, però, già cominciare a pensare fin da ora a come competere e sicuramente il PD non può farcela da solo. Serve l’aiuto di tutti coloro che pensano a una Verona sostenibile, aperta, europea, antifascista, smart, innovativa, solidale. Abbiamo due anni di tempo per convincere i veronesi. Un tempo che considero utile e congruo per fare questo percorso. Bisogna crederci, però agire anche di conseguenza.»

Avete già individuato su chi puntare come candidato sindaco?

«No, non ancora. Ma per le elezioni del 2017 ad un certo punto avevamo anche pensato a una via civica. Ecco, per il 2022 penso a una situazione simile, anche se dobbiamo ancora individuare la proposta e costruirla. Dovremo essere soprattutto convincenti con la persona che alla fine sceglieremo, ma dovrà essere anche un nome, quello, in grado di allargare il campo il più possibile. Altrimenti, ripeto, andremo incontro ad un’altra sconfitta.»