Almarina ha sedici anni, è romena e suo padre le ha rotto qualche osso, adesso è a Nisida «per fortuna». È «un nodo, un gomitolo, una scimmia con una tuta sformata di acetato addosso» ma è anche «forte, batte bene, scatta veloce per difendere il punto […] è generosa» quando gioca con le compagne.

Almarina è il romanzo con cui Valeria Parrella è stata finalista al Premio Strega 2020 e basta leggere le prime pagine per ritenere corretto il suo posizionamento nella cinquina, al di là dell’esito del concorso, perché l’autrice riesce in un sofffio a portarci dentro e fuori l’adolescenza, gli abusi, i corpi di chi a Nisida arriva per aver commesso un reato e lì trova una parentesi in cui può permettersi, ancora e finalmente, di crescere, studiare, sognare.

Valeria Parrella al Salone internazionale del libro
di Torino nel 2017, fonte Facebook

Che cosa sia Nisida è dato saperlo, uno dei diciassette istituti penali minorili del Paese. La novità è piuttosto che Parrella, attraverso la storia di Almarina, costringe a pensare e a riflettere sul rimosso comune: le carceri dove vivono persone con esigenze normali nonostante le limitazioni alla loro libertà. E le carceri minorili, strutture in cui adolescenti e giovani adulti sono rinchiusi perché provati duramente dalla vita, defraudati del loro tempo dalla famiglia o da adulti incoscienti e criminali.

La voce narrante del romanzo è quella della professoressa di matematica, Elisabetta Maiorano, che insegna a Nisida da alcuni anni e ogni giorno, all’ingresso, si riprogramma mentalmente per trovare una collocazione tra i ragazzi e le ragazze, mediando con la sua vita libera “fuori”, in una Napoli problematica  e affascinante. Adesso però deve compiere una mediazione più grande, perché la sua vita e il suo lavoro devono adattarsi anche all’elaborazione del lutto recente del marito, che scatena quello più antico, latente, della mancata maternità.

Almarina, che il padre ha violentato e poi rovinato di mazzate, fuggita con il fratello minore, privata anche da questo legame affettivo per volontà dei servizi sociali, risveglia nella professoressa il sentimento di protezione, il desiderio di cura e responsabilità verso una persona in divenire, la bellezza di vederla schiudersi a un destino che la risarcisca e la porti «lontano dal suo passato». Nella speciale empatia che si crea tra la professoressa Maiorano e la studentessa Almarina c’è qualcosa che potrebbe chiamarsi amore, declinato nella misura del dono che non chiede nulla in cambio, che aiuta a vivere, «l’amore delle madri: senza merito, senza reciprocità, senza conquista».

Valeria Parrella, che oltre a scrivere romanzi è anche drammaturga e giornalista, ha operato come volontaria nel carcere di Nisida animando un laboratorio di scrittura creativa. E forse per questo motivo si respira tra le sue righe molto rispetto per le persone che vivono la condizione di reclusi e per quanti vi lavorano. Si colgono tutte le sfaccettature della cosiddetta “pena”, dalla punizione alla compassione, alla fatica che i soggetti provano “dentro”, al di là del ruolo che giocano. E c’è molta delicatezza da parte dell’autrice nel maneggiare questi temi senza cadere nel mélo, senza forzare i toni, con un poetico equilibrio tra memoria, realtà e sguardo su un possibile futuro.

Almarina, di Valeria Parrella, Einaudi, 2019