Più che una bella scoperta, sono una continua riscoperta. Dagli aspri crinali della Liguria fino agli inaccessibili boschi dell’Aspromonte, gli appennini rappresentano un aspetto della bellezza sottovalutata nel nostro Paese. Uno scrigno nascosto. Tanto che, prima di innamorarsene, occorre conoscere meglio.

Il dorsale montuoso che si estende per quasi 1.200 chilometri lungo la penisola nei secoli è stato penalizzato da terremoti e difficoltà logistiche. Col tempo antichi borghi si sono gradualmente svuotati, altri sono stati letteralmente abbandonati, in una mappa geografica spesso da aggiornare. Fenomeni che però non hanno cancellato le opportunità a chi cerca suggestioni lontane dagli stereotipi del turismo di massa. La ricchezza da offrire qui è soprattutto ambientale: biodiversità e antropologia ma anche una quintessenza d’italianità che arriva pure dalla straordinaria offerta culinaria.

Almeno una volta all’anno gli Appennini si prendono una meritata vetrina mondiale. A queste vette il Giro d’Italia non rinuncia mai. Montagne e colline spesso prive di nomi altisonanti sono immortalate da immagini televisive della corsa ciclistica. Panoramiche che consentono di apprezzarne la meraviglia scenografica. Strade tortuose, franose ed erte, poggi selvaggi e tornanti temuti da chi ha l’obiettivo di conquistare la maglia rosa. Proprio in queste tappe, tra curve e vette insidiose tanto quanto i più celebrati passi alpini, spesso si sono decise i destini della corsa.

Santuario della Verna

Sono terre abitate fin dall’antichità. Qui vissero Etruschi e Romani. Lungo quei sentieri sono transitati eserciti, viandanti, pellegrini, cacciatori, fungaioli, briganti, contrabbandieri e infine partigiani. Un labirinto di tracce e ghiaiosi percorsi forestali tenuti in vita dall’opera assidua e faticosa dei pochi che ancora resistono alle sirene della civiltà urbana.

Conoscere a fondo questi luoghi è un’operazione complessa in cui la pazienza è la virtù essenziale. Ogni remoto borgo e eremitico crinale si può raggiungere a piedi, segnato dalla presenza di edicole votive. Sono erette con pietra locale, come molte delle abitazioni, quasi a vessillo indelebile del proprio natale e del proprio campanile. Appaiono all’entrata delle contrade, memoria di un passato di sentita devozione, a volte ormai nascoste dalla natura che si riappropria degli spazi che l’uomo un tempo le aveva tolto.

Maggiociondolo sui crinali spartiacque tra Romagna e Toscana

Chi non ha mai sentito parlare di Gran Sasso o Terminillo? L’appennino lì è da cartolina. Per scoprirlo davvero si può fare di più, come addentrarsi lungo fitte vie d’ortica o di felci che all’improvviso si dissolvono in disordinate radure, per poi riprendere più in là, tra roverelle e cespugli di Belladonna. Avanzare tra rovi, magari inzuppandosi nella mota brunastra smossa dai cinghiali. Nel fruscio delle serpi, tra l’odore della ginestra e del maggiociondolo in fiore, ci si emoziona del primo ginepro maturo.

Mentre si scivola giù dagli affioramenti calcarei o si segue un fuori traccia, dove qualche salvifica pozza rinfresca dal calore della roccia arsa dalla canicola di mezzogiorno, non è insolito imbattersi in girini in procinto di metter fuori le zampe, sparute e paciose salamandre e scontrosi gamberi di fiume.

Conoscere gli Appennini significa aver compreso che essere toscani, emiliani o romagnoli è una questione di pochi metri, di spartiacque, di fatalità. Qui si è sempre di parte e si prende parte. Ogni scelta è di campo: olio o burro, Bartali o Coppi, guelfi o ghibellini, democristiani o comunisti, fascisti o partigiani. Qui la sensibilità civica è vissuta con accaloramento quotidiano. Tra gli Appennini non si è mai nel mezzo: si gioca a biliardo alla Casa del Popolo imprecando i santi ad ogni spigolo beffardo, oppure a scopone al bar dell’Acli, trattenendo a stento il disappunto per la sorte avversa.

Colori autunnali nei pressi del Passo della Futa (Firenze)

In cima, sulle sorgenti dell’Arno, intorno al Falterona, solo l’esperto sa declamare nomi ed epiteti di quella cima raggiunta da raffiche di marino o di quell’altra in cui faggi secolari, querceti e mughi coesistono tra loro come su una tavolozza dominata dal color verde. Sarà per questo che qui l’alterità rimane un valore e non una colpa. Quei nomi di località e vette, che paiono estratti quasi a sorte da saghe e leggende millenarie, citati a memoria solo dagli anziani del luogo, profumano di camino, di legna da ardere, di un vissuto che solo chi ha spaccato quella stessa legna o ha raccolto castagne per farci farina sa immaginare fino in fondo.

Terre nello stesso tempo semplici e complesse proprio come le squisite ricette sul menu delle locande in cui il legame con il passato è tenuto vivo in ogni crocicchio di anziani in cui si discute con vigore di politica, di diritti e di futuro, con animo popolare. Dalle rupi di arenaria grigia che s’affacciano sul Santerno, alle intricate e abbandonate boscaglie della Lunigiana, fino ai colli forlivesi — su cui «Il Duce veniva “a rinfrescare”» come racconta un albergatore del luogo — e più a sud, tra le rocce di spogli monasteri francescani e valli devote a Santa Rita, c’è un’Italia ai più sconosciuta che meriterebbe maggior attenzione. Anche per frenare il suo lento e silenzioso declino. O peggio, la morte.