«Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche.»

Nell’universo immaginario di Macondo tutto è possibile. Le stuoie possono volare e i fiori cadere sottoforma di pioggia, può arrivare la peste del sonno che costringe gli abitanti a una veglia infinita, un vecchio può aspettare la morte legato a un castagno e una bambina può aggirarsi portando con sé un sacco risonante delle ossa dei suoi genitori. 

Macondo è tra i luoghi letterari più amati e celebrati del nostro tempo, un incandescente spazio narrativo che ha reso Cent’anni di solitudine uno dei romanzi latinoamericani più importanti mai scritti.

Alcuni indizi permettono di collocarlo nella penisola della Guajira, non lontano delle coste del mare caraibico. Partendo da Riohacha, infatti, la spedizione guidata da José Arcadio Buendía s’inoltra nella sierra per 14 mesi prima di stabilirsi definitivamente lungo le rive del fiume dove sorgeva l’accampamento.

Macondo corrisponde in gran parte ad Aracataca, un villaggio del distretto del Magdalena che sta sotto la Sierra Nevada de Santa Marta, incastonato nella foresta colombiana tra le piantagioni di banane. Gabriel Garcìa Márquez era nato lì e lì aveva trascorso i primi otto anni della sua vita, sbirciando i gringos e le belle donne in abiti eleganti che animavano la cittadina bananiera di Makond, al di là della cinta di filo spinato che separava i due insediamenti.

Così immaginò poi la sua Macondo: un paesino di case di fango, tagliato fuori dal resto del mondo, che diventa una moderna cittadina con tanto di collegamento ferroviario. Fino al declino, che inizia proprio ai tempi della compagnia bananiera, e al pomeriggio in cui un vento violentissimo spazza via il villaggio dalla faccia della Terra.

«Come si arriva a Trapananda?»
«Con pazienza, amico. Con molta pazienza».
Patagonia Express, Luis Sepúlveda

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