Oggi, in questo martedì diverso da tutti gli altri, un martedì rinchiusa in casa per colpa di un virus pericoloso, io ho scelto. Ho scelto di essere felice.

Non possedendo le doti persuasive e il carisma di Yogananda, vorrei però provare a dare anche ai nostri lettori qualche spunto per fare altrettanto. La vita è un dono incartato male, a volte un doppione che cercheremo di riciclare il prossimo Natale, a volte la tentazione è di buttarlo proprio. E invece, si finisce per trovargli un posto, all’orribile soprammobile che ci hanno regalato, e quel che sembrava fuori contesto e assurdo o impensabile, diventa parte integrante di noi, un altro pezzetto di noi con cui fare conoscenza.

La prima sensazione è stata il panico. Devo correre al supermercato, fare provviste, benzina alla macchina, ma dove vuoi andare? eh, non si sa mai, hai preso il lievito, come non c’era il lievito, va beh faremo la pizza con la biga. Panico per garantire a noi stessi la sopravvivenza. Panico utile, necessario, anche un po’ esaltato ma una reazione positiva, costruttiva, organizzativa.

Panico fu la prima reazione, poi è arrivato il riposo. Ci siamo dovuti fermare, rallentare i nostri ritmi, anche l’intestino se n’è accorto. Se devo restare a casa, ne approfitto per recuperare il sonno di tante notti, passate a immaginare scenari apocalittici per la famiglia che poi non si sono mai avverati, notti a piangere chi non c’è più o a parlarci insieme, seduti sullo stesso divano. Abbiamo fermato le gambe, abbiamo bloccato il pensiero. Un lungo sonno ristoratore.

La prima sensazione, il panico; poi il riposo e subito dopo la rinascita. Ci siamo alzati una mattina dal letto e abbiamo aperto la finestra. Fuori non c’era il sole delle favole, ma un cielo plumbeo, pesante. L’aria però, ecco. L’aria era pulita, leggera, scendeva nella gola come la neve da bambini. Abbiamo respirato a fondo, quasi non ci ricordavamo più quanto può essere lento, calmo, pieno, questo movimento. Abbiamo deliberatamente introdotto aria nei polmoni e non lasciato che i polmoni succhiassero ossigeno di sopravvivenza, tra una corsa e una bestemmia. Abbiamo assaggiato la vita come dovrebbe essere, fragrante come una rosettina con la bondola, mordicchiata con tranquillità davanti a un buon bicchiere di vino.

Panico fu la prima reazione, poi un lungo sonno e il risveglio di sensi assopiti o nascosti in fondo. E poi, poi è arrivata la gioia. La gioia delle cose piccole, mica dovete pensare alla pace nel mondo. Fare colazione con un figlio ormai grande, che non ha più bisogno di noi; ritrovarsi a parlare con qualcuno prima delle otto, aprire gli occhi alla solita ora e non essere soli a bere un caffè in piedi, mentre ci mettiamo le scarpe. Litigare per il disco da mettere sul piatto e fare turni per le serie tv; godersi il silenzio, il suono della natura e apprezzare la distorsione di una lavatrice in centrifuga, che anche lei ha qualcosa da dire.

Siamo cambiati in poco tempo, siamo animali sociali ma pur sempre animali. Ci siamo adattati alle nuove condizioni, ma l’abbiamo fatto cercando sempre, anche inconsciamente, un ritaglio di sole, un profumo. Se ci sono figli piccoli in casa, avrete riscoperto quanto sia pesante sopportarli e quanto incapaci siamo nel mantenere la loro attenzione, avete rivalutato la forza titanica di un insegnante e mandato segrete benedizioni a chi si occupa di loro al posto vostro.

Se sono grandi, avrete sicuramente notato una magia. Una mattina dei primi tempi, quando noi si lavorava e loro no, mi sono trovata il figlio in bagno, alle 7.30, che si stava pettinando. Dopo aver sbattuto un paio di volte le palpebre e deglutito a vuoto come per un fantasma, ho chiesto ma, come mai sei in piedi a quest’ora? E per la risposta ho dovuto sedermi sul vicino water (cosa che comunque era già in programma). “No, niente. Facciamo lezione online”.

Un virus coi pallini ha fatto riscoprire a loro, ma anche a tutti noi, la voglia di vedersi, di parlare con i compagni, con gli amici di sempre; pare aver scatenato perfino la curiosità verso cose nuove, l’apertura autonoma e volontaria di un libro, l’aiuto reciproco nel fare i compiti o capire meglio la spiegazione del profe.

C’è un adorabile paradosso in tutto questo. Per anni ce l’hanno “smenata” sulla tecnologia che separa le persone, delle famiglie che non parlano perché impegnate ai rispettivi cellulari. Hanno scritto libri e girato film sull’isolamento indotto da internet, mentre ora – nella prima crisi reale al mondo come l’abbiamo sempre conosciuto – l’unico collegamento con il mondo ci viene dato dal mostro a tre teste: superfibra, computer e cellulare. Si scoprono nuovi modi di interagire, ci si incontra su una piattaforma condivisa per chiacchierare e, dopo i primi momenti di imbarazzata agitazione e “ma guarda che capelli che ho!” ci si ritrova ad essere gli stessi, soliti, cazzoni perduti di sempre. Ci si ritrova a casa.

Tobia tiene lezioni antistress

Facciamo una vita da gatti, non so se vi è capitato di pensarlo. I gatti dormono, mangiano, si fanno fare le coccole e si allontanano; chiamano e pretendono attenzione, poi spariscono nel loro piccolo mondo acciambellato. Stiamo diventando come i nostri mici e qualcuno sta pure esagerando con le crocchette! Loro fanno le fusa, quando sono felici. Noi siamo felici quando loro fanno le fusa. Come i gatti, ci salva la nostra musica, troviamo piacere nell’impastare a mano (se solo ci fosse il lievito al supermercato!) e perfino nello stendere la lavatrice che ormai ha finito il ciclo e ci richiama dal divano. No, non chiedete al gatto di farlo per voi, non funziona, dicono.

Nello stesso momento ci sono persone che non hanno un attimo di tregua, che cercano di salvarne altre; ci sono cassiere dei negozi che si stupiscono di un ringraziamento, che sorridono guardando lontano, come una qualsiasi Canzone per te. E ci sono persone che pensano di morire, non riescono a respirare, a pompare aria nei polmoni, che sono allo stremo delle forze e in qualche momento rimpiangono quell’aperitivo un sabato sera, si distruggono a pensare ai cari rimasti a casa, in attesa di un verdetto. Voglio poter immaginare che ci sia un attimo in cui il nostro pensiero li raggiunga, porti loro ossigeno e speranza. Voglio credere che possano trarre la forza che non hanno più nello sguardo buono intuito dietro la mascherina di un’infermiera, inviata da tutti noi. Noi che siamo a casa, rinchiusi in una gabbia, noi che soffriamo per la nostra immobilità, che vorremmo andare a spasso o fuori a cena con gli amici. Quando pensiamo di non resistere un altro minuto, pensiamo a chi in quel minuto potrebbe davvero tornare a respirare da solo, potrebbe aver trovato l’uscita dall’inferno.

Noi guardiamo il sole e i prati fioriti, sentiamo il vento sulla faccia e ci sporgiamo ancora un po’ dal davanzale, per salutare il vicino che ci sorride come non aveva fatto mai. Voglio pensare solo a questo sole, questo vento e ai sorrisi sospesi, voglio pensare solo cose belle.