Il mondo dello sport si sta fermando, ovunque nel mondo. Tra proclami ispirati alla volontà di andare avanti e dare l’esempio, chiusure degli impianti di gioco, emanazione di provvedimenti disomogenei tra stati, federazioni e leghe di ogni genere ordine e grado, sembra si arrivato il fatidico stop. A breve tutte le discipline chiuderanno i battenti e chissà se i campionati, le coppe e ogni altra rassegna agonistica potranno mai essere terminati. Quando sarà tutto sospeso, congelato, verrà da dire: “era ora!”. Non sarà un’esclamazione animata da sterile critica o da intenti disfattisti, ma da un sospiro di sollievo. Gli appassionati e i tifosi hanno trascorso queste ultime settimane avvolti nella trepidazione tra annullamenti attesi, spostamenti e sospensioni, come assistendo ad una lunga agonia – si perdoni il paragone non certo felice, di questi tempi – o come di fronte allo sgretolarsi di una montagna, letteralmente impotenti. Immaginarsi, poi, come possano aver passato questo periodo atleti, allenatori e dirigenti, è veramente impossibile, soprattutto per chi non è un addetto ai lavori. Tra allenamenti che non si sa bene se, come e dove organizzare, trasferte sì o trasferte no, paura e tanta confusione, gli attori dello sport hanno ben presto capito che qualcosa di veramente importante stava per accadere. 

Rudy Gobert, professionista francese. La sua positività al Coronavirus ha scosso, e fermato, l’intera Nba

Diciamolo: c’è sicuramente ben di peggio, di questi tempi, che essere atleta o allenatore: ad esempio medico o infermiere. Eppure, la reazione degli sportivi per esorcizzare ciò che stava accadendo è stata del tutto umana e comprensibile: hanno cominciato a parlarne, anche più del solito, come se lo sport fosse il centro dell’universo. Ogni tanto è anche giusto ricercare un po’ di leggerezza: per certi versi, infatti, rasserena parlare dei drammi sportivi di questa sfortunata stagione, ben di altro tenore, invece, sarebbe occuparsi delle sconsolanti notizie che quotidianamente arrivano dalle rianimazioni. Rimane comunque dura stare senza sport per un appassionato in buona salute: niente più stadio, niente più notti insonni a guardare le partite Nba, niente, almeno per ora, Formula 1, visto il recente annullamento del Gran Premio d’Australia, prima gara della nuova stagione. Negata la possibilità di gioire come si deve per la strepitosa stagione della nostraFederica Brignone, salterà, forse, anche la compilazione del Bracket, il consueto tabellone collegiale che ogni presidente degli Stati Uniti che si rispetti si diverte ad ipotizzare quando arrivano le fasi finali NCAA e impazza la march madness. In questo periodo di forzata reclusione, non basteranno certo i video vintage dei salti di Carl Lewis o di qualche demi-volee di marca svizzera effettuata nel giardino di Wimbledon, a salvare l’appassionato da questa imprevista astinenza. Nemmeno le immagini sempreverdi di Madrid ’82 o Berlino ’06, rifugio per eccellenza nei momenti di grande sconforto, potranno mai alleviare tutto questo.
Prima che il senso di privazione e lontananza dalle immagini sportive possa togliere lucidità, occorre tuttavia analizzare quanto accaduto nelle ultime settimane, periodo convulso e assai controverso dello sport ai tempi del Coronavirus

Ragazzini al campetto, un’immagine che non vedremo per qualche tempo. Vietata anche l’attività sportiva all’aperto

In Italia si è aspettato decisamente troppo per fermare le attività sportive, mentre per quanto riguarda l’estero, non vale nemmeno la pena parlarne, tanto è il ritardo con il quale le varie istituzioni sportive stanno agendo. La colpa probabile è l’impreparazione all’emergenza, vuoi per leggerezza, vuoi per l’arroganza tipica di una società che non ha vissuto carestie, guerre e inciampi di alcun genere da diversi decenni, e che quindi matura suo malgrado un senso di preoccupante invincibilità. Non è questione di parti politiche, ma di una classe dirigente, anche quella sportiva, schiava della necessità di apparire vincente sempre e comunque. Il Coronavirus ci ha messo in ginocchio, ma nessuno voleva ammetterlo, ognuno si è scansato di fronte alla naturale responsabilità di comunicarlo alla popolazione, se non a babbo morto

E lo sport in tutto questo come si è posto? Guardando al caso italiano, si è diligentemente adattato alle prescrizioni governative, arrivando conseguentemente più tardi del dovuto. Ha gestito male l’inizio dell’emergenza? Formalmente no, ha fatto esattamente il suo dovere, attenendosi alla Legge e ai Decreti, che di volta in volta venivano pubblicati. Dal mondo sportivo, però, era lecito attendersi molto di più. Basandosi su valori cardine quali il rispetto, la cura della persona, l’educazione dei giovani, Coni e Federazioni avrebbero, forse, dovuto anticipare i tempi e precedere le indicazioni ministeriali. Non era cosa facile, si comprende. Si è, invece, invece oltremodo sottovalutato il problema dettato dallo scoppiare di questo tremendo virus. Si è anche mal valutato, come spesso accade, che lo sport non è uno solo. C’è quello professionistico – meglio, di vertice, visto che a parlare di professionismo in Italia ci riferiremmo veramente ad una ristrettissima elite di atleti – c’è, poi, quello agonistico non retribuito, quello giovanile e non e, infine, quello ludico ricreativo. Non tutte queste categorie di sportivi, naturalmente, hanno le medesime esigenze. 

Giovanni Malagò, Presidente del Coni, uno dei primi a richiede decisioni univoche da parte delle varie Federazioni

Leghe e Federazioni hanno pensato prima di tutto a ciò che è il loro presupposto genetico: ai campionati, alle classifiche, alle rassegne internazionali, prima tra tutte le Olimpiadi di Tokio, senza tener conto delle diverse fasce di sportivi. Nei primi giorni della crisi sono stati emessi provvedimenti e restrizioni, primariamente per tutelare la prosecuzione dell’attività agonistica, quella governata dagli sponsor e da rilevanti interessi economici. A distanza di qualche giorno, appare ancor più paradossale conseguenza che, mentre le scuole chiudevano, gli stessi alunni si ritrovavano bellamente in palestra a fare sport nel pomeriggio/sera. Così agendo, non si sono aiutati gli sportivi e loro famiglie a comprendere la gravità della situazione e sono state esposte a rischio contagio migliaia di persone. Vedremo gli effetti di ciò nelle prossime settimane. Sia per una questione educativa di fondo, sia per una miglior gestione dell’allarme, il mondo sportivo avrebbe dovuto agire diversamente. L’errore è stato sanato in corsa: una settimana ci è voluto, infatti, per portare le Federazioni, tra le prime quella di pallavolo, a comprendere che non si poteva andare avanti così e l’attività ha cominciato ad interrompersi. Come? da un lato le stesse Federazioni a inizio marzo hanno finalmente fermato i rispettivi campionati e gare, in virtù di una responsabilità che è tra le loro peculiarità in quanto organizzatori. Parallelamente il Governo ha varato norme più stringenti per le società sportive in tema di controllo sanitario, quasi tutte evidentemente impossibilitate ad applicarle. La conseguenza è stata che i presidenti di società, giorno dopo giorno, hanno ritenuto insensato assumersi rischi penali, a fronte di una bassa probabilità di riavvio dell’attività agonistica nel breve, e hanno chiuso. Si è così intervenuti a fermare anche gli allenamenti. Non prima, tuttavia, che taluni forzassero la mano con improbabili e comunque pericolose attività di gruppo all’aperto o proseguendo l’insensato regime delle porte chiuse. 

Mikaela Shiffrin e Federica Brignone, un duello in pista che si è interrotto troppo presto

Nel mentre, risolto il problema dello sport di base, stragrande maggioranza, lo sport di vertice navigava ancora nel caos. Il calcio soprattutto – sia concessa la freddura – è andato nel pallone completamente. Giornate disputate a metà, Lega contro Governo, Associazione Calciatori contro tutti, ma senza un pieno appoggio dei giocatori stessi che, lautamente pagati, non sono andati oltre a qualche episodica dichiarazione di moderato dissenso alla prosecuzione dell’attività. La voce più forte a favore dello stop totale è stata quella di Mario Balotelli, e si può ragionevolmente comprende perché non sia stata ascoltata con attenzione, pur nella sua ragionevolezza. Un teatrino imbarazzante, inaccettabile se accompagnato dai numeri sempre crescenti sui contagi. C’è voluta un’altra settimana ancora per chiudere tutto, o quasi. Nella maggioranza dei casi ciò è avvenuto solo a seguito di riscontrate infezioni tra i tesserati che, oltre a determinare la quarantena di molti, hanno di fatto impedito la prosecuzione delle attività. Colpa esclusiva delle istituzioni italiane? No, affatto. Così come per quanto riguarda la vita di tutti i cittadini, avremmo auspicato un maggior coordinamento tra Stati – alla luce del rischio pandemia montante – anche nello sport dove, invece, non c’è stata una gestione unitaria della crisi. I campionati di calcio hanno fatto mala scuola su questo: l’Italia si ferma, pur dopo troppe indecisioni, altri stati rinviano, altri giocano, alcuni solo a porte chiuse. Le Coppe per si giocano a singhiozzo, con l’Uefa che tentenna sul da farsi e pensa anche al prossimo Europeo di giugno, in questo momento a forte rischio rinvio, Cosa succederà ? Chi lo sa? Da un lato può anche apparire logico che le società, con bilanci di alcune centinaia di milioni di euro, abbiano tergiversato prima di sancire lo stop. Tutto assurdo, comunque, vista la situazione di pandemia.

Damiano Tommasi, Presidente dell’AIC, da subito molto critico verso la scelta di continuare a giocare del calcio

Ogni sport, coi suoi tempi e modi, sta dunque fermando le attività, con un ritardo direttamente proporzionale agli interessi economici in gioco. In questa occasione così drammatica, possiamo dunque affermare che lo sport sia diventato qualcosa d’altro, ben lontano dai suoi valori fondanti. L’importante è non prendersi in giro, quantomeno a livello di semantica lessicale.