Ha ragione Romano Prodi: l’Emilia-Romagna è sempre stata un laboratorio politico. A sinistra  – lì si svilupparono le leghe socialiste contadine e il mondo universitario e intellettuale catto-comunista, prima alla Bolognina e poi a Rimini ci fu la svolta post-comunista di Occhetto – ma anche a destra (Mussolini diede spinta al fascismo con Italo Balbo a Ferrara e Leandro Arpinati a Bologna, il bolognese Gianfranco Fini seppellì l’Msi, fu Guazzaloca a Bologna il primo in Italia a espugnare un fortino rosso). Lo sarà anche dopo il voto di domenica. Diamo uno sguardo agli scenari nazionali che verranno.

Guardiamola da sinistra: ora che ne sarà delle Sardine, i veri vincitori delle elezioni emiliano-romagnole? Il leader del Pd Nicola Zingaretti ha dedicato loro la prima dichiarazione post voto. La prima. Non è casuale. Zingaretti proverà – consentitemi il termine volgarissimo – a “inglobarle”, o quantomeno a strutturarle come quinta colonna movimentista e giovanile dei dem. Democratici che con Zinga si stanno spostando sempre più a sinistra (nella cattolicissima Trento candidano a sindaco un sindacalista della Cgil, una bestemmia in chiesa ai tempi del renzismo). Il ragionamento del loro segretario è chiaro: lo scontro futuro sarà tra sinistra socialista e destra sovranista. La gente ha voglia e urgenza di scegliere, di identificarsi in una causa o contro un nemico. Per questo al Pd servono le Sardine, che hanno incarnato la voglia di sinistra di una parte del Paese. Il Pd poi cercherà di recuperare il rapporto storico con sindacati, mondo della scuola e lavoratori in genere (a cui è stato dato qualcosa in più in busta paga con l’ultima manovra).

In questo quadro i liberal Renzi/Calenda (in Emilia-Romagna rappresentati da Bonaccini e la sua lista) avranno un loro spazio autonomo, ma nell’alveo organico di una coalizione di centrosinistra. E i 5 Stelle? Sono ridimensionati, ma non spariranno se – come ha deciso Beppe Grillo – diventeranno costola legalitaria del centrosinistra, prendendo il posto dell’Italia dei Valori ai tempi dell’Ulivo. E’ il cosiddetto “fronte largo” di cui parla Zingaretti dal marzo 2019, quando divenne segretario. Zingaretti che non ha carisma né presenza mediatica, ma ha raffinata visione politica (non a caso non ha mai davvero perso un’elezione in vita sua). Lui il disegno lo ha capito da mesi e ho il sospetto che anche la scissione con Renzi (e Calenda) sia stata in qualche modo “concordata” per dividersi gli spazi.

Guardiamola da destra: se Matteo Salvini piange, Giorgia Meloni sotto sotto (forse) non dispera del tutto, anzi. Sia chiaro, guai a dare per morto il leader della Lega, che peraltro ha raggiunto percentuali storiche anche in Emilia-Romagna.  Però è stato proprio Salvini a ridurre il voto di domenica a un referendum su di lui. La sua leadership non è (ancora) in discussione, tuttavia ne esce un po’ ammaccata. Il problema del Matteo (non più) padano è che, alla lunga, la sua chiassosa spregiudicatezza e i suoi semplici slogan (spesso sprovvisti di contenuto) potrebbero avere il fiato corto. Salvini è uno scattista e non un maratoneta e l’autogol del Papeete dell’agosto scorso rischia di pagarlo chiaro. Rispetto a 5 mesi fa ha già perso 10 punti percentuali (era al 40%) e la crisi di governo innescata in spiaggia e senza alcun motivo rischia di avergli minato la credibilità dell’elettorato più mobile, quello che sale sul carro del vincitore e che spesso determina la vittoria di una coalizione rispetto all’altra. E davanti a lui ora si insinuano due spade di Damocle: un governo nemico rafforzato e che potrà restare in sella altri tre anni e l’arma letale (di Zingaretti-Franceschini) di una legge elettorale proporzionale che rischierebbe di metterlo ai margini.

Last but not least: Salvini è un uomo solo al comando, per sua scelta. Dal 2013 ha scientemente indebolito la classe dirigente della Lega nei territori. Oggi il Carroccio è un partito affollato di tanti dirigenti sconosciuti e senza voti, che si ritrovano ad occupare poltrone e ruoli solo perché graditi al leader e al suo cerchio magico. Allo scattista solitario Salvini è sempre andata bene con il vento (del populismo) a favore, che succederebbe se dovesse trovarsi a pedalare in un falsopiano in controvento? Insomma, come arriverà alle Politiche del 2023 il capitano?

Non ha di questi problemi la Meloni che, al contrario, a destra, sta costruendo gradualmente (un po’ come Zinga a sinistra) il suo piccolo capolavoro politico. La sua coerenza (non ha mai stretto accordi politici fuori dal centrodestra) comincia a rendere. E Fratelli d’Italia è un partito sempre più strutturato con una classe dirigente sul territorio nettamente superiore alla Lega. Infine dietro gli slogan  (è il pegno che si è obbligati a pagare alla comunicazione odierna) c’è un ideologia con dei contenuti e una storia: quella della destra italiana. Quella vera.