Pochi giorni fa abbiamo appreso la notizia che i Borgomastri delle capitali dei quattro Paesi del cosiddetto “Gruppo di Visegrád” si sono alleati in una sorta di “fronte comune” che, in dissidenza più o meno aperta nei confronti delle politiche populiste dei loro governi nazionali, si propone di fare da ponte verso le istituzioni comunitarie europee. I sindaci di Praga Zdenek Hirb, di Budapest Gergely Karácsony, di Brartislava Matús Vallo e di Varsavia Rafal Trzaskowsky si sono posti alla testa di quelle che, per citare il titolo di un celebre manifesto di sociologia urbana scritto da David Harvey, sono Città ribelli. Harvey, dalla sua prospettiva marxista, riteneva che «la rivoluzione dovrà essere urbana, o non sarà affatto». Ciò in considerazione del fatto che l’esperienza della modernità è prima di tutto un’esperienza, appunto, urbana. Dalla Rivoluzione Francese a quella Bolscevica dell’ottobre 1917, passando per la Comune parigina del 1871, tutti i movimenti volti a sovvertire l’ordine sociopolitico della società borghese sono stati prima di ogni altra cosa movimenti “urbani” e l’idealtipo dell’intellettuale moderno, che nel  flâneur baudelariano ha il suo antenato, è assolutamente urbano.

Sadiq Kahn, sindaco di Londra

La città, con le sue contraddizioni, le sue diseguaglianze ma anche con la sua ricchezza di stimoli e le sue opportunità è il luogo moderno per eccellenza. E tutto ciò che si oppone al moderno è reazionario. Occorre dirlo con estrema nettezza, anche per fare piazza pulita di talune narrazioni antimoderne, come ad esempio quella della “decrescita”, che hanno fascinato la sinistra post marxista alla disperata ricerca di riferimenti. I Borgomastri delle capitali di Visegrád non sono i soli leader cittadini che si sono posti alla testa di movimenti dissidenti rispetto alle politiche nazionali dei loro Paesi. Nel gruppo, infatti, può essere ascritto idealmente anche il sindaco di Londra Sadiq Kahn il quale, complice l’ambiguità del leader labour Corbyn, si è posto alla guida del fronte antiBrexit. Del resto Londra in questi anni è stata una island nel mare del voto proBrexit, autorappresentandosi come una sorta di “città-stato” in aperta contrapposizione alle politiche nazionali britanniche. A questo punto i termini della questione si chiariscono: la rivoluzione prefigurata solo pochi anni orsono da Harvey (il suo Città Ribelli è uscito in Italia nel 2013) è forse sul punto di scoppiare, ma non con le modalità che lo studioso anglosassone pensava. Molti indizi ci fanno sospettare che la politica del XXI secolo avrà come pivot la cleavage Centro-Periferia o Città-Campagna che si pensava ormai superata con l’avvento delle democrazie di massa post belliche.

Una scena del film “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”

La frattura tra i “centri urbani”, proiettati nel sistema delle relazioni globali e le periferie ancorate a quel sistema di relazioni locali che è utilizzato dalle narrazioni populiste per mobilitare il consenso sarà lo zeitgeist prossimo? In tale contrapposizione si può trovare ragione della suddivisione del voto per la Brexit in Gran Bretagna, nella quale il voto sensibile alla narrazione populista e pro Leave si è concentrato soprattutto nelle aree extraurbane, mentre il voto pro Remain si è arroccato entro i confini delle città. Ma guardando oltreoceano potremmo anche pensare alla suddivisione del voto USA, con le preferenze per la narrazione trumpiana concentrate nella pancia dell’America “profonda”, suburbana, descritta anni fa in un celebre e importantissimo testo di analisi: The Right Nation (titolo completo: Why America is different, di Adrian Wooldridge, ndr.). Seguendo questa ipotesi interpretativa andrebbe riconsiderata la figura di Boris Johnson, molto meno british e molto più populist di quanto la sua stessa narrazione voglia ammettere o far credere. Anzi, BoJo è probabilmente (e paradossalmente) il primo leader populista, e quindi Europeo, che l’arcipelago britannico abbia avuto fino a ora. Non a caso ha definito il suo un «Governo del popolo».

La città-stato

Stiamo per vedere l’alba di un nuovo sistema di relazioni geopolitiche? Forse è prematuro dirlo, ma i segnali in questo senso sono molti. Semplificando potremmo dire che la tensione tra stato nazionale e il sistema di relazioni internazionali che definiamo “globalizzazione” potrebbe nel lungo periodo fare emergere forme territoriali di dimensioni minori rispetto agli attuali stati nazionali, nelle quali il riconoscimento identitario sia fondato su basi storico-culturali locali, ma l’interrelazione con il sistema economico sia saldamente globale. Ciò vorrebbe dire mettere in discussione la suddivisione geopolitica attualmente in essere. A chi può prendere con divertito scetticismo questa affermazione consiglio un facile esercizio: munirsi di un atlante storico e confrontare la carta politica dell’Europa del 1918 e quella del 2020. Il fastidioso principio di Realtà ci dice solo una cosa: non esistono sistemi immutabili, di alcun genere. Del resto cosa sono i sussulti indipendentisti in Scozia, Catalunya e diverse altre regioni europee, se non tensioni centro-periferia? Ha iniziato a indagare in questa direzione un analista come Parag Khanna, che nel suo recente La rivincita delle città-stato ha prefigurato l’evoluzione del mondo del XXI secolo.

Parag Khanna

Khanna ci espone innanzitutto la sua idea per uscire dalla crisi dei sistemi rappresentativi che si è fatta acuta nel finire del XX secolo con l’eruzione dei sintomi del populismo. Di fronte alla deriva populista che può avere il sistema democratico fondato sul suffragio universale e alla progressiva trasformazione dei sistemi statali in apparati burocratici, basati su di un clientelismo che mobilita il consenso elettorale attraverso la spesa pubblica (strumento, notate bene, tipicamente populista), Khanna propone un sistema politico basato sulla tecnocrazia illuminata ad alta efficienza, il cui esempio è la città-stato di Singapore. Per funzionare in maniera ottimale, e questo è il punto centrale nell’elaborazione di Khanna, le tecnocrazie illuminate hanno la necessità di operare economie di scala. “Piccolo è bello” potrebbe essere il loro slogan. Quindi in luogo di Stati che producono apparati burocratici inefficienti a causa delle loro dimensioni elefantiache (e quindi difficili da controllare) l’organizzazione territoriale dovrebbe essere costituita da forme politiche in scala ridotta su base locale e quindi più efficienti perché più piccole. Le immagini che propone Khanna sono assai suggestive, non limitandosi alle “citta stato” ma andando a ricercare esempi anche nel sistema degli stati regionali dell’Italia del nord durante il rinascimento. Stati “local” ma saldamente interrelati nella rete “global”, quindi? È una suggestione molto interessante per contrastare la deriva populista, ma forse anche una possibile evoluzione del sistema statale occidentale sulla quale riflettere.