A poco più di due anni dal referendum del primo otttobre 2017 che chiedeva l’indipendenza della Catalogna e a 3 mesi dalla sentenza della Corte Suprema spagnola – che ha inflitto pesanti pene fra i 9 e i 13 anni di carcere ai leader separatisti che all’epoca avevano responsabilità di governo –, ci si chiede, fra indipendisti e non, quale sarà il futuro del paradossale, sospensivo e sospeso “independentismo catalano”.

Foto di Carolina Torres

Più che un “processo”, quello catalano sembra un atto performativo, lo stesso che il filosofo e linguista John Langshaw Austin definisce come asserzione che non descrive uno stato positivo o negativo, vero o falso, ma che coincide con l’azione, con una promessa che non dispone delle condizioni necessarie per venir adempiuta, che risulta quindi infelice. Ovvero incompiuta.

Questo è stato il problema della Dui, la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza, votata il 10 ottobre 2017 dal Parlament della Generalitat de Catalunya. Settanta i voti favorevoli, dieci i contrari e due schede bianche. Risultati che hanno scatenato l’esultanza in aula e nelle strade: secondo la Guardia Urbana solo nella capitale catalana, Barcellona, sarebbero state 17mila le persone radunate in piazza Sant Jaume per festeggiare l’indipendenza. Ma dopo la “vittoria” durata solo 56 secondi, il Senato spagnolo ha approvato l’articolo 155 che autorizza cui il Governo centrale a togliere l’autonomia alla Catalogna, commissariando la regione. La Dui risultò essere quindi un atto performativo senza le condizioni di felicità. Dichiarare la Repubblica catalana è stato, più volte, un gesto performativo: una promessa incompiuta.

La reazione della folla vicino all’Arc de Triomf nel momento della dichiarazione d’indipendenza (a sinistra) e nel momento in cui la Repubblica catalana viene “sospesa” da Puidgemont (a destra).
Pochi secondi separano le due foto.

«Ho tornarem a fer: quan la injustícia és la llei, la desobediència civil és un dret» (“Lo faremo di nuovo: quando l’ingiustizia è la legge, la disobbedienza civile è un diritto”), è uno dei concetti racchiusi – e il titolo omonimo – nel libro recentemente pubblicato dal leader indipendista Jordi Cuixart, un appello alla disobbedienza non violenta per essere «un po’ più liberi» ogni giorno e suggerisce la volontà del presente a ripetere la Storia.

Foto di Carolina Torres

Occorre però analizzare due sfumature del sostantivo “ripetizione”. Facendo riferimento alle teorie di Kierkegaard, esiste una ripetizione stricto sensu e una ripetizione che comporta un rinnovamento, che favorisce quindi la produzione di un elemento di novità dentro la ripetizione stessa. Ma, può la ripetizione di una promessa fallita tradursi in realtà a posteriori? Dichiarare nuovamente la Repubblica catalana è una promessa morta o solo l’eterno ritorno nietzschiano? Karl Marx scrisse che la Storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa.