Sarà a Verona, al Teatro Romano, ancora fino al 10 agosto lo spettacolo di danza contemporanea Alice dei Momix. Uno show che sta registrando il tutto esaurito quasi ogni sera (per le prossime serate ancora alcuni biglietti disponibili, ma bisogna affrettarsi) e che riporta nella città scaligera la magia del mitologico gruppo di danza diretto da Moses Pendetlon. Il coreografo più immaginativo del mondo, in collaborazione con la sua codirettrice Cynthia Quinn, è riuscito a ricreare con questa nuova produzione tutta la dimensione onirica di cui è capace, nel tentativo di narrare una storia in un modo inaspettato e inconsueto.

Questa volta a creare il fil rouge della narrazione è l’opera di Charles Lutwidge Dodgson (in arte Lewis Carroll), scrittore, matematico, fotografo e prete anglicano inglese vissuto nel XIX secolo che riportò nel suo “Paese delle meraviglie” i dubbi, le paure, i desideri dell’infanzia, ben rappresentata da Alice, appunto. Un fil rouge, questo, che è stato soprattutto fonte di ispirazione e punto di partenza per Pendleton e i suoi ragazzi, ma che solo a tratti emerge nella narrazione messa in scena dai Momix. I quali, ovviamente, approfittano di questo geniale esperimento per mettere in campo le varie sequenze narrative e richiamarsi a quanto già proposto in passato. E non potrebbe essere altrimenti: la loro ultradecennale storia, d’altronde, parla chiaro. Si parte così dall’adolescente Alice, che – volteggiando su una scala appoggiata a un albero di campagna – si addormenta mentre legge un libro. E da lì prende corpo la successione delle varie “sequenze” che spaziano fin da subito fra gli inquietanti incubi tipici dell’infanzia e che Carroll ha così ben descritto, fra metafore varie, nel suo celebre libro. Si vira poi subito ad ambientazioni noir, per non dire horror, che risultato propedeutiche allo sviluppo successivo della narrazione.

I Momix – sette sul palco: tre uomini e quattro donne – esaltano nei vari set, grazie a un atletismo eccezionale che permette loro performance dall’alto coefficiente di difficoltà, le proprie capacità “plastiche”, supportati in questo da una colonna sonora che spazia fra i vari generi e in cui spiccano alcuni brani di Gotye e i Franz Ferdinand. La formazione esprime la visione geniale di Pendleton, usando a tratti anche l’ironia in antitesi alle tinte austere di alcuni quadri scenici e coreografici, frutto probabilmente di un inconscio torbido e magnetico che Pendleton non nasconde (quasi) mai. E via via scorrono sotto i nostri occhi, anche grazie a un po’ di necessaria immaginazione che il pubblico deve aggiungere, i vari personaggi che abbiamo imparato ad amare – dal Cappellaio Matto al Brucaliffo, dalla Regina di Cuori fino al Bianconiglio (che qui assomiglia molto all’inquietante coniglione di Donnie Darko) – e ad alcuni personaggi minori, che riescono, grazie alla loro presenza, a dare un senso ulteriore e a volte obliquo a quelli cosiddetti principali. Grazie al sapiente uso dei proiettori il cambio di scena è immediato e Pendleton riesce a suggerire, in qualche caso, e a suggestionare, in qualche altro, con immagini bislacche, storpiate, ingigantite e rimpicciolite, fino ad arrivare a questa sensazione di disagio quasi permanente. Si assiste, lungo questo percorso, anche a richiami culturalmente elevanti, come i riferimenti ai dervishi turchi o ai tessuti vorticosi e illuminati della Loïe Fuller di inizio Novecento.

La magia degli effetti luminosi, arricchiti da sofisticate videoproiezioni su stoffe e superfici fluttuanti, aiuta la sensazione del perdersi che Carroll, lo sappiamo, volle instillare nel suo lettore e che il pubblico veronese dimostra di apprezzare. Il gioco di specchi, in quell’io che si sdoppia all’infinito, con quadri dinamici che si rincorrono fra esplosioni cromatiche sul palcoscenico, sono una festa per gli occhi e infondono stupore e grazia, forza e delicatezza allo stesso tempo. L’espressività dei corpi flessibili e muscolosi, strettamente connessi alla multimedialità proposta, è legata indissolubilmente al flusso della metamorfosi di Alice e del suo mondo e di quel divenire costantemente “altro”. In questo non-luogo nascosto tutto si trasforma, compreso il corpo umano, e nulla è ciò che veramente appare. Il Teatro Romano, gremito in ogni ordine di posto, applaude convinto alla fine dello spettacolo (che si conclude con la struggente White Rabbit dei Jefferson Airplane) e richiama i sette ballerini più volte per ricevere il meritato applauso. Arrivederci Momix. L’appuntamento con Verona, ci scommettiamo, è per il prossimo anno, quando la compagnia compirà “i suoi primi 40 anni”.