Oltre tre ore e mezza di concerto hanno fatto da eco allo straordinario impegno che Cristiano De Andrè sta portando avanti da un decennio per raccontare alle nuove generazioni l’Opera del padre Fabrizio. Di chi critica e di chi dice che sono i dischi di Fabrizio a parlare, poco importa. Cristiano De Andrè, ogni volta che propone qualcosa, dimostra il suo talento di polistrumentista – è da brividi quando suona il violino, con un virtuosismo sempre maggiore – e di raffinato interprete dell’opera di Faber. Una voce che, chiudendo gli occhi, trascina decenni indietro, tanto la timbrica e il calore sono simili. Ma Cristiano non imita, è lui in tutta la sua autenticità! La voce si avvolge alle note, le abbraccia e le riscalda, permettendo alla canzone di estendersi – oltre al piacere del pensiero che vola oltre la fantasia creando immagini che consolidano il racconto – in un orizzonte sensoriale di melodie rinnovate, che evolvono dalla musica d’autore e dalle sonorità che furono di Fabrizio, in un nuovo contemporaneo.

Il pubblico dell’Arena

Già con la fine degli anni Settanta Fabrizio ci aveva abituati a canzoni che – abbandonati alcuni schemi fissi nella musica della canzone d’autore – strizzavano l’occhio alle sonorità delle varie culture che abitano il Mediterraneo. Commistioni e influenze culturali che nascono dal calore e dalla musicalità dei dialetti, dalle tradizioni locali, dal rumore dei mercati e della gente per strada, da un’umanità da raccontare senza fiato e senza censura. Mondi e modi di vivere che, da un estremo all’altro di questo esteso lembo di terra che abbraccia questo grande mare, hanno suggerito una struggente varietà di note e di profumi. Stelle e Luna, sempre le stesse ma sguardi, gioie e dolori diversi a ispirare le note, a tramutarsi in poesia. Cristiano, anche per questioni temporali, fa suoi questi insegnamenti e li porta anche sui piani delle sonorità elettroniche e tecnologiche. Il messaggio di Fabrizio appare immutato ma la forza e l’energia di trasmissione si amplificano, trovando nuovi sbocchi, nel massimo rispetto per l’idea primordiale.  Assistere a un concerto dal vivo è sempre un’emozione, un’assemblea condivisa di sogni che permette di raggiungere anche i giovani. Così in Arena, che supera le diecimila persone, ci si trova a vivere in un clima  intergenerazionale. Ci sono sedicenni e sessantenni che, pur avendo percezioni ed emozioni diverse, permettono a Cristiano di estendere la sua missione di apostolo dell’opera di Fabrizio, azione oggi più che mai necessaria.

Cristiano De Andrè

La prima parte della serata, che è divisa in tre, è affidata a Cristiano e alla sua band che eseguono l’album Storia di un impiegato, l’opera più pacifista di Fabrizio. Alle note, alle parole e alla voce si accavalla la proiezione di filmati e animazioni che mostrano ribellioni e rivoluzioni, dal 1968 ai gilet gialli di oggi. Ci si emoziona quando durante l’esecuzione di La canzone del padre, con sullo sfondo animazioni, appare un’immagine di lui con Fabrizio. Si ragiona e riflette durante Al ballo mascherato grazie allo scorrere di immagini che riconducono a volti di politici e rockstar e altre icone del Millennio, che delineano un mosaico del nostro contemporaneo. È poi Cristiano a sottolineare alcuni messaggi del disco. Pace, ribellione, giustizia e lo spiraglio di una fede laica intesa come rivoluzione del buon senso, come necessità di trovare se stessi sotto le macerie di decenni di soprusi dai quali sembriamo non aver imparato nulla.

«Oggi abbiamo bisogno di pulizia politica, ma non solo. Anche di natura, di biologia, di cose buone. Abbiamo bisogno di mangiare bene e di non farci più fregare. E anche di dare un po’ di pane alla nostra anima.»

Cristiano si rivolge ai giovani, a coloro che possono lottare pacificamente per qualcosa di diverso, che possano ribellarsi al vuoto. Sigilla con una voce sempre più matura nell’eseguire l’opera del padre, che resterà sempre nell’Olimpo e dalla quale Cristiano ha dimostrato autonomia, sia grazie a questo progetto, sia con i suoi sette dischi nei quali racconta la natura umana che è insita in ognuno di noi. Concetti che diventano la vera chiave di lettura del concerto.

«Dopo cinquant’anni di vuoti esistenziali dovremmo aver capito che la felicità non si può comprare come ci hanno insegnato, che la legge del più furbo non è giusta. Ricominciamo dall’anima. Se siete qui è perché volete nutrirvi di testi e di poesie dei quali mi sono nutrito io nell’infanzia e dei quali mi sto continuando a nutrire con questo portare mio padre alle nuove generazioni. È questo che voglio fare! Come un sacerdote atipico, come apostolo di una messa laica. Mio padre ha professato la pace. Era un fan di Gesù Cristo e del Vangelo, come lo sono io.  Era fan di un uomo che è stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, che ha infondato pace e amore. Dovremmo rileggetelo  tutti il Vangelo, sempre. È quello che ci serve! Non per una questione di schieramento  religioso ma per conoscere una grande persona, una grande fonte di amore e di pace. Vogliamoci bene, rispettiamoci. Rispettiamoci anche se non abbiamo le stesse idee. Siamo noi che gestiamo la nostra vita, non il potere, se ci vogliamo bene possiamo farcela.»

Dopo una prima parte decisamente carica – Cristiano misura magistralmente gli arrangiamenti che ben si amalgamano con l’immortalità del messaggio del concept album – tocca alla PFM Premiata Forneria Marconi proseguire nel difficile compito. Ci riescono, con la loro versatilità, con quell’emozione – che si percepisce – di riproporre le medesime canzoni che furono dello storico tour del 1978 che li vide protagonisti con Fabrizio. Dalla rivoluzione del 1968 e dai moti cantati da Cristiano in omaggio all’Impiegato, a una originale e nuova rilettura musicale delle canzoni di La buona Novella con le gesta del rivoluzionario Gesù Cristo e Maria, raccontanti come uomini e non come divinità. Uomini come noi,  accanto a noi, in mezzo a noi e non in un mondo distante e parallelo. Nel gran finale Cristiano e PFM, tutti assieme, raccontano il Fabrizio più energico, quello degli arrangiamenti trascinanti de Il Pescatore e Volta la Carta. Un’operazione che ha segnato un punto fisso, una linea netta, un confine che è un solco indelebile dal quale proseguire. Per lo spessore del messaggio che Cristiano ha trasmesso, grazie a una selezione matura  della scaletta e per la profondità delle parole che ha rivolto al pubblico, ci sarebbe materiale per raccontare nuove storie. Un nuovo disco di inediti? Altrettanto, però, piace il racconto universale dell’opera «del più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant’anni in Italia. Quel dolce menestrello che per primo ci ha fatto le sue proposte di pacifismo, di non violenza, di anticonformismo: sempre di più sarebbe necessario, invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano», per dirla come Franca Pivano.