Organizzare una vacanza in Islanda è il sommo stereotipo del turista danaroso, che vuole godere di una natura scarsamente antropizzata, sentirsi per qualche giorno esploratore, ma in piena comodità e sicurezza. Un viaggiatore da approccio toccata e fuga – poco importa il tempo di permanenza –, pronto poi a tornare a un’azione e a un respiro pendolari, magari tra Milano centro e sobborghi a uso dormitorio. Forse è proprio questa la natura e il compito dell’Islanda nell’universo: una parte di creato a uso e consumo temporaneo di chi fugge dalla cosiddetta civiltà, imbrattata di polveri sottili, frenesie e terziario evanescente. Pardon, “servizi”. Verosimile che il Creatore abbia realizzato un Eden da fruire in forma occasionale un po’ fuori mano e non a prezzi da discount. Verso il Polo, perché l’idea di Nord ha sempre avuto un che di salvifico. D’altra parte, molte civiltà del passato hanno ubicato indefinitamente proprio verso Nord le terre leggendarie e i luoghi perfetti, purificatori. Si pensi, ad esempio, al mito di Iperborea. Sappiamo che ogni leggenda conserva frammenti di verità e che qualcosa di vero ci deve pur essere.

L’Islanda è Reykjavík, una capitale da poco meno di 125.000 abitanti in cui l’integrazione tra popoli, lingue e culture raggiunge livelli assimilabili alla perfezione, in cui la disoccupazione rimane un concetto astratto, eventualmente da teorizzare con formule matematiche in un’aula universitaria. È luogo dove merito e idee nuove vengono valorizzate, chiavistelli utili alla scalata sociale, peraltro non così assillante come ambizione personale: lì operaio e dirigente d’azienda, infatti, conducono una vita molto più simile tra loro che altrove. Reykjavík è una città dal profilo ondulato, in continuo movimento intellettuale e tellurico, dove bullismo e alcolismo sono stati debellati attraverso programmi sportivi d’eccellenza, in cui i bimbi vanno a scuola soli, e tornano pure a casa, eresia alle nostre latitudini, senza bisogno di scomodare i genitori e i loro Suv da doppia fila. È luogo in cui Marco Mancini, immigrato italiano ed ex calciatore di belle speranze, è diventato famoso per aver avuto l’idea di importare delle formiche per lo zoo locale. Assenti in natura, vuoi non farle conoscere ai bambini islandesi? Gli avevano messo a disposizione 50.000 euro per l’operazione, lui si è accontentato di molto meno e ora sta progettando, tra un lavoro e l’altro, di importare anche dei serpenti. Sembra quasi una barzelletta, specie se si pensa che è insegnante di italiano all’università locale e vive la zoologia unicamente come hobby.

L’Islanda è natura, è terra di ogni colore, antica come il mondo in alcune zone, neonata in altre. È un paesaggio che cambia, modellato dalle eruzioni, dai venti e dal mare e, per quel che basta, dall’uomo. È campagna, insediamenti di poche abitazioni nei quali il problema oggi non è trovare sostentamento per sopravvivere agli inverni, ma avere occasioni per conoscere l’anima gemella. Pensateci quando andate in discoteca a rimorchiare e avete centinaia e centinaia di potenziali opportunità, che privilegio! In Islanda se uno degli sparuti potenziali partner del vostro villaggio non vi si fila, dovrete aspettare (tanto) tempi migliori. L’islandese abbandona sovente l’isola per studiare e fare esperienze, poi il più delle volte ritorna e mette a disposizione della comunità le sue qualità e conoscenze acquisite. È più aperto dei cugini scandinavi, più dei vicini scozzesi, come poche altre culture isolane riescono ad essere. Non è geloso della sua lingua, è quasi sempre poliglotta, ma l’inglese basta e avanza. Al motto di salviniana memoria “prima gli islandesi”, i nativi rispondono con un “ben venga chi ha idee e buona volontà”. L’Islanda è geograficamente lontana a noi, ma lo è ancor di più come mentalità. Abissi sembrano distanziarci.

L’Islanda è luogo di contrasti, come tra luce e buio, che si alternano nelle stagioni, non nei giorni, come viceversa siamo abituati ad altre latitudini. Scalare un monte circondati dalla luce nordica, quella che arriva radente e trasforma foto mediocri in capolavori, disturbare involontariamente delle gazze vicino al loro nido sperso nei prati, cucinare del merluzzo sul barbecue di un cottage in riva al placido mare di un fiordo, attendere la ciclica esplosione di un geyser o banalmente camminare su nere rocce laviche coperte di grigi licheni, dove qua e là spunta un coloratissimo fiore, sono solo alcune attività che potete fare anche a mezzanotte. La luce della notte ha un che di magico fino a quando non diventa abituale, come le maree in Bretagna. Scambiare le sere con le mattine è una piccola ma sacrosanta trasgressione di viaggio da vivere per forza, un po’ come fare alba in Riviera Romagnola con un bombolone in mano. Alla lunga, però, le trasgressioni si pagano con una sonnolenza onnipresente perché l’uomo si abitua a tutto, ma non a modificare i naturali cicli del sonno.

Luce a mezzanotte dai rilievi a picco su Olasfjordur, nel nord dell’Islanda

L’Islanda è scienza: geologia, sismologia, vulcanologia soprattutto. È un museo a cielo aperto, un campo studio, un laboratorio di ricerca. L’Isola si sta separando, la frattura atlantica pian piano dividerà questa terra, così come sta allontanando l’America dall’Europa, pochi centimetri alla volta. È la deriva dei continenti: solo in Islanda questa frattura emerge dagli abissi e si disvela, facendo intuire quali e di quale intensità siano le forze che regolano l’Universo. Addirittura, con un certo sprezzo verso la tettonica a placche, ci si può avventurare in una camminata o in un’immersione dentro alla stessa faglia. Un tempo ci si guidava pure dentro, ci passava una strada; ancor prima, dal 930 d.C., si riunivano le sedute dell’Althing, l’assemblea generale degli Stati Scandinavi, forse il più antico Parlamento del mondo. Da Þingvellir, sede originaria del Parlamento islandese, a Bruxelles e in mezzo più di mille anni di istituzioni: sovviene immaginare il neoeletto Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli arringare l’assemblea dall’alto di una rupe al centro di un emiciclo di pietre e terra. Che location sarebbe!

Geysir, il Geyser più famoso d’Islanda, nel momento dell0esplosione

L’Islanda è un mondo in ebollizione. Non puoi abbandonare il sentiero, andare fuori traccia senza sentirti in pericolo. Giace sopra a un punto caldo, come le Hawaii, lo si nota ad occhio nudo in diverse aree del Paese. Così può capitare, in una giornata ventosa e umida, di potersi riscaldare immergendosi in acque a 37 °C, in torrenti sconosciuti al turista da Lonely Planet, ma ben noti ai residenti. Tecnologia e ricerca hanno permesso agli abitanti di godere a livello energetico già da alcuni decenni di tutto questo calore emergente, ricchezza principale d’Islanda, con innegabili benefici in termini di costo in bolletta per i cittadini.
Tra cascate, seconde per magnificenza solo a quelle del Niagara e poche altre, paesaggi bucolici con gli onnipresenti pony autoctoni – razza purissima e di eleganza senza pari – e una società scandita da ritmi naturali invidiabili, viene da chiedersi perché dirigersi all’aeroporto internazionale di Keflavik per imbarcarsi e ritornare verso casa. Ma a dire il vero non troviamo una risposta veramente convincente: ci si può dilungare nei pensieri senza trovare una spiegazione. Eppure, si ritorna a casa e, con assoluta disinvoltura, ci si cala nuovamente nei ritmi e nella complessità generati dalle nostre abitudini e regole sociali. Non è affatto nei panorami abbacinanti l’esclusiva virtù di un viaggio in Islanda, benché questa sia opinione largamente diffusa: è negli interrogativi che pone, una volta che si sceglie di ritornare al proprio vivere, al perché si decide di rincasare, rinunciando all’Eden per un qualcosa d’altro. Ognuno nel tempo trova la sua solida risposta, sempre che non sia un preconcetto, un’abitudine o, peggio, una droga.