Il constante degrado del sapere certifica l’assenza di prospettiva dell’Italia odierna.

In molte scuole stanno finendo gli esami di Stato. Esami che, come abbiamo visto, nello scritto certificano una scarsa fiducia negli alunni, mentre nell’orale cambiano le carte in tavola: dopo uno o più cicli scolastici che hanno strutturato un sapere a compartimenti, in discipline non comunicanti tra di loro (salvo la disponibilità di alcuni docenti disposti a fare squadra), si passa con qualche mese di anticipo a un esame che impone collegamenti tra saperi. Sembrerebbe un tentativo di inversione di rotta, dalla parcellizzazione delle nozioni alla capacità di organizzare le conoscenze e le capacità in un contesto più ampio.

Fatto altrimenti, avrebbe un senso. In realtà, basta guardare la qualità media dei nuovi laureati e dei nuovi insegnanti: spesso avvilente. Tra ricorsi, certificati, indulgenze, inclusione, la scuola ha rinunciato al riconoscimento del merito ma, soprattutto, alla certificazione del fallimento, che è – piaccia o no – parte maggioritaria dell’esistenza umana.

Chiunque sia stato in una classe delle superiori non può non aver notato che il costituzionale diritto allo studio è stato trasformato in un sapere alla portata di tutti, livellato quindi verso il basso; l’inclusione a ogni costo ha cancellato il merito e i più dotati sono condannati alla noia dell’attesa che i meno dotati, o anche motivati, riescano a raggiungere una nominale sufficienza. A cui arrivano poi tutti: gli ammessi all’esame di terza media hanno raggiunto il 98,3%, alla maturità il 96%. Ha davvero ancora senso?
E, sia chiaro, non certo perché si sia nel frattempo diventati una Nazione di fenomeni. Tutt’altro.

Il Rapporto Istat 2018 conoscenza evidenzia infatti che «a confronto con il 2006, la percentuale di studenti italiani insufficienti si è ridotta di quasi 10 punti nelle competenze numeriche, 5 in quelle di lettura e di 2 punti nelle competenze scientifiche… ma siamo sempre dietro a Nazioni europee che contano e davanti a “superpotenze” quali Lituania, Croazia e Lussemburgo e comunque dietro la media UE».

Le imprese lamentano giustamente un predominare delle materie umanistiche a scapito di quelle di cui avrebbero realmente bisogno. Vero: in effetti, le discipline umanistiche hanno sbocchi limitati, nel terziario o nel patrimonio culturale. Che in Italia sarà pure sterminato, ma occupa solo il 9,5% (13% con contenuti e media) perché “con la cultura non si mangia” (ma sarà vero?). È un fatto che, rispetto a Germania e Spagna, la quota di spesa nelle scienze ingegneristiche è minore, ed è maggiore quella nelle scienze sociali e negli studi umanistici, come dimostra sempre il Rapporto Istat 2018 conoscenza. Dilagano le “facoltà inutili”, certifica il Sole24 ore. Perché?

Intanto, perché legate alla famiglia e alla condizione sociale che incide in modo determinante sulle competenze alfabetiche degli studenti (su una scala normalizzata a 200, i liceali ottengono valori superiori di 29 punti rispetto a quelli degli Istituti tecnici e 50 punti a quelli professionali). «Rispetto a Germania e Spagna, in Italia la quota di spesa nelle scienze ingegneristiche è minore, ed è maggiore quella nelle scienze sociali e negli studi umanistici» prosegue il Rapporto Istat. Le competenze degli studenti del Centro-nord, inoltre, sono decisamente superiori. Quindi, prevale il prestigio sociale nel solco del concetto arcaico contadino di abbandonare l’aratro e prendere la penna.

Ma poi, uno studente perché si dovrebbe indirizzare la sua vita verso facoltà che non lo attraggono? Per stage da 600 euro? Servono davvero competenze specialistiche in un Paese che non fa innovazione ma è un tessuto di piccole-medie imprese, spesso a conduzione familiare? In cui gli stipendi sono molto bassi?

Il panorama, insomma, sembra poco incoraggiante e una società attenta al futuro dovrebbe allarmarsi. Perché allora nessuno si sgomenta del decadimento culturale del Paese, ravvisabile anche dai profondi dibattiti bipolari sui social, in cui ogni utente – da un giorno all’altro – diventa esperto in tutto, tranne che nel leggere fino in fondo e comprendere un articolo di giornale?

Bisogna accettare che, perso il ruolo di selezione sociale e di ascensore, svilito e decaduto il ruolo dei docenti, la scuola è ora mero parcheggio in attesa che il mondo del lavoro (con addetti in calo e che lavorano sempre più a lungo) faccia un po’ di spazio. Un parcheggio dove stare tranquilli, che, come purtroppo dimostra sempre il Rapporto Istat, sforna pochi laureati e molti inattivi: «Per motivi storici, nel confronto europeo il nostro Paese sconta livelli relativamente bassi sia della quota di laureati sull’insieme della popolazione, sia nelle competenze dei giovani e degli adulti». Più asili che scuole, perché sono oramai estensione della mamma che, se scontenta, fa ricorso. E vince. E in cui i professori spesso fanno gli assistenti sociali.

Il risultato? Un universitario su 2 soffre di stress. La scuola non prepara al mondo del lavoro, ma nemmeno al fallimento e alla sconfitta che, si voglia o no, sono esperienze necessarie alla crescita. Si cresce coi no, si diceva una volta. Oggi, certificano i dati, un pezzo di carta non si nega a nessuno, che tanto per vendere oggi telefonini e domani contratti elettrici vanno bene assai.